Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Sulle tracce storiche di Gesù, nella riscoperta della pace come cuore del vangelo
(Locri 28-05-03). Origine: Gesù realizza il messianismo biblico. Relazione alla settimana biblica di Lucera (14-03-03)

L’argomento è sicuramente affascinante, ma anche complesso. Per procedere con un minimo di ordine in un orizzonte così vasto, lo svilupperò in riferimento alla tipicità dell’annuncio del Regno di Dio da parte di Gesù (prima parte); al radicamento nella bibbia dello shalom messianico (seconda parte); al fatto che Gesù realizza lo shalom messianico e impegna i suoi discepoli nella sua promulgazione (terza parte).

1) Il Regno di Dio annunciato da Gesù

Almeno alcune delle classiche premesse introduttive sono indispensabili. La prima riguarda la persona e l’agire di Gesù. Come risulta dalla critica storica e dagli esiti degli stessi studi biblici, non è possibile la ricostruibilità storica di un’esatta cronologia degli avvenimenti che ne hanno segnato il suo passaggio tra noi. Come è noto, non disponiamo di fonti “non canoniche” sufficientemente informate sulla vita di Gesù, mentre le fonti bibliche risentono troppo di ricostruzioni letterarie che non sono sembrate concedere molto, se non limitatamente a ciò che R. Fabris raccoglieva in una "cartella anagrafica di Gesù"[1]. Ciò riguarda pochi dati come assolutamente certi, tra i quali il nome di Gesù: Jeshù, abbreviazione di Jehoshùa;  i suoi genitori, Joseph e Myriam; il tempo della sua nascita, individuata nell'epoca del re Erode (tra il 5/6 a. C.); il suo stato civile di celibe e la sua professione di carpentiere.  A ciò sono tuttavia da aggiungere, come elementi decisivi, il messaggio della via maestra dell’amore e della resistenza al male con il bene, in quanto elementi collegati comunque all’interiorizzazione del progetto di Dio da parte di Gesù e a una sorta di radicalità spirituale. Ciò è alla base del suo un ripudio da parte delle autorità giudaiche e romane di Gerusalemme, fino alla sua condanna a morte sulla croce, come avveniva per gli zeloti dell’epoca.

Il più recente studio su    Gesù di J. P. Meier ne parla come di “un ebreo marginale”, il cui messaggio s’incentra su un Regno di servizio, con in prima fila gli umili. Partendo dall’ebraicità di Gesù, che l’ultima fase della ricerca storica ha messo in luce, lo studioso americano evidenzia però una “marginalità” di Gesù, almeno rispetto al mondo religioso e cultuale della sua epoca[2].  Delle 4 parti della monumentale ricerca di Meier facciamo qui riferimento soprattutto alla prima e alla seconda[3]. Tale ricerca, minuziosa e persino pignola, appare su alcuni punti molto, troppo, cauta. Vuole sgombrare il terreno dai numerosi riduzionismi ai quali la ricostruzione storica di Gesù è stata piegata. Contiene critiche rivolte sia ai “fondamentalisti e conservatori”, a corto di argomenti storici, sia alle cosiddette letture parziali, accusate alquanto frettolosamente di essere sociologicamente inquinate di marxismo[4]. In questo caso occorre però riconoscere che lo studio non mostra un rigore critico pari a quello  storico, dal momento che spesso identifica un tale sociologismo marxista semplicemente con una non meglio precisata “teologia della liberazione”[5].

A tale riguardo ci sentiamo di annotare, pur riconoscendo la distanza di Gesù dalle interpretazioni teologiche di stampo zelota o di messianismo terreno[6], che in Meier come in altri autori sembra essere presente un pregiudizio sistematico verso quanti, e noi siamo tra questi, non accettano che l’escatologia di Gesù riguardi solo un futuro tutto di là da venire. Il rischio che affiora è un’interpretazione spiritualistica, non sufficientemente adeguata alla globalità della salvezza dell’epoca, tipica dell’agire di Gesù, come fatto interiore ed esteriore, terreno e ultraterreno, personale e collettivo. Un esempio? Le beatitudini di Gesù, interpretate solo come promesse, trascurando il fatto, riconosciuto dalla maggior parte dei biblisti, si pensi all’opera di J. Dupont, che esse sono un pronunciamento salvifico di Dio nell’oggi e rappresentano uno sconvolgimento del giudizio dell’uomo[7].

Se Meier fa riferimento anche al valore del presente, questo appare come conversione intima e individuale, che non investe un cambiamento di prospettiva con risvolti storici e sociali ben precisi.

E con ciò tocchiamo una seconda premessa, che qui non può che essere accennata e che è stata trattata in maniera più diretta nel volume “Gesù e la sua prassi di pace”[8]: l’attendibilità storica dei vangeli non già sulle vicende cronologiche della vita di Gesù, ma sul suo progetto teologico, un progetto passato ai suoi discepoli attraverso la loro frequentazione del maestro.  Quel “progetto teologale”, più che “teologico” è certamente una rivisitazione e una re-interpretazione di ciò che la Bibbia diceva rispetto a un argomento particolarmente scottante alla sua epoca, il messianismo. E con il messianismo l’altro argomento, che nel vangelo sembra fargli coppia, e che è l’annuncio del Regno di Dio. È a partire dalla congiunzione di questi due grandi temi che, a mio avviso, si può e di deve cogliere l’agire di Gesù come vero e proprio agire di pace.

Un riferimento può essere utile, per evidenziare la paradossalità e la specificità di un tema così vasto come il Regno di Dio nella predicazione e nell’agire di Gesù. Riguarda il detto di Gesù che nel Regno di Dio il più piccolo è più grande del Battista (Mt 11,11). Le spiegazioni del detto di Gesù si sono sprecate e sono lungi dall’essere approdate a una soluzione unitaria. A noi sembra esemplare, perché ci consente di cogliere la consapevolezza di Gesù sul fatto che il Regno, da lui annunciato e impiantato, sia un regno della misericordia e dell'amore. Un regno pertanto diverso da quello annunciato dal Battista, tratteggiato a tinte fosche come regno del giudizio e della consunzione del fuoco purificatore che stava per abbattersi sulla terra[9].

Per Gesù il Regno costituisce un particolare intervento di Dio tra gli uomini. Questi sono chiamati sì alla conversione, alla metanoia, ma lo sono secondo particolari modalità: sono invitati da Gesù a far festa, dopo i giorni dell’austero richiamo del Battista[10]. Se, giustamente, il Regno non si può ridurre a un "simbolo in tensione", come affermato da qualcuno[11], deve essere una realtà escatologica, cioè ormai definitiva e irreversibile, che, seppure non ancora compiuta, è stata già decisamente avviata.

Se queste sono le caratteristiche principali del Regno di Dio,[12]non possiamo trascurare che cammina in questa direzione la beatitudine di Gesù «Beati i facitori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Sebbene nella sua formulazione questa non si ritenga una delle «ipsissima verba Jesu», non si può misconoscere che sia una sintesi riuscita di una predicazione e di un agire che ha per soggetto Gesù e coloro ai quali egli rivolge il suo messaggio. È, infatti, una partecipazione all’attività benevola di Dio, ed è nel solco di quella fusione tra agire di Dio e agire dell’uomo, che troviamo in passaggi evangelici come questo:

   «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Da’ a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle. Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,38-48).

 Gesù allude ad una radicalità nella benevolenza verso gli altri (mi sembra questo il senso più con vincente dell’espressione «siate perfetti come il Padre») che partecipa della radicalità dell’amore di Dio verso gli uomini. Quanti vivono così possono anche essere incompresi e insignificanti secondo la logica umana. Tuttavia partecipano a quella corrente dell’amore di Dio che riceve nel Regno una sua rappresentazione teologica. Di esso sono parte costitutiva e sono pertanto veramente beati. Sono chiamati ad essere tali. Chiamati a gioire della venuta di Dio tra gli uomini. Ne sono un avamposto nella storia.

Quello annunciato e avviato da Gesù è un regno che non nasce dal nulla. Ha una sua lunga preparazione nella Bibbia e affonda le sue radici nel messianismo, cioè nell’annuncio e nella realizzazione della pace, dello shalom biblico.

2) Radicamento nella bibbia dello shalom messianico e sua interpretazione

2.1. L’agire misericordioso di Dio e il suo regno di pace

Pur parlando di pace, occorre dire che la Bibbia ci presenta spesso un Dio “schierato”. Lo troviamo al fianco degli oppressi e delle vittime dell'ingiustizia. Il suo regno non è simile agli altri regni che tollerano e persino producono ingiustizia su ingiustizia. È piuttosto un regno di giustizia e di pace. La pace, che affiora in tutta la ricchezza dello sholom come realizzazione, felicità e benessere dell’uomo, è spesso collegata al ristabilimento della giustizia. Talora passa attraverso l’alleanza e la legge (la torah). In Isaia, nell'Antica Alleanza, «effetto della giustizia sarà la pace» (Is 32,17), in Giacomo, nella Nuova Alleanza, «un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace» (Gc 3,18). Siamo in presenza di una reciprocità, dalla doppia formulazione «la pace nasce dalla giustizia», «la giustizia è frutto della pace». Una reciprocità che rimanda a un orizzonte più ampio, riguardante la presenza di Dio, la sua signoria (il suo regno), la sua benevolenza verso la storia di Israele e la storia umana.

Ora il regno di Dio non è da intendersi come semplice contenitore di pace e di giustizia, ma soprattutto come catalizzatore di una loro sintesi armonica, a partire dall'agire di Dio, che si manifesta sempre più chiaramente come agire misericordioso verso i peccatori e verso gli infelici e come forza liberante verso gli oppressi e i diseredati. È una regno che tende continuamente a ristabilire il diritto e la giustizia. Tutto ciò si raccorda con il tema dell'alleanza e con la promessa del ristabilimento del regno messianico. Una realtà, in definitiva, che esprime il manifestarsi storico di Dio in un regno di pace:

«Le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia. Ai miseri del suo popolo renderà giustizia, salverà i figli dei poveri e abbatterà l'oppressore. Il suo regno durerà quanto il sole, quanto la luna, per tutti i secoli. Scenderà come pioggia sull'erba, come acqua che irrora la terra. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna» (Sal 72,3‑7)

Il binomio pace e giustizia diventa un trinomio, include il «suo regno» e risuona come una promessa: allude ai tempi del messia. È un tema frequente, pur nelle sue tante variazioni. In ogni caso si tratta di un futuro su cui Dio impegna se stesso, impegna la terra al pari del cielo. Ricordate?

«Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno, la verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 85,11‑12).

Nella Bibbia sono ancora menzionati insieme la giustizia e il diritto come prassi regale di Dio, la grazia e la fedeltà (Sal 89, 15; Sal 97, 1‑2). Si tratta pur sempre della giustizia come zedaqà di Dio, santità ed equanimità, ma anche misericordia e tenerezza di colui che è «misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34,6). In Zaccaria, la pace è menzionata insieme con la verità e resta nell’ambito dell’intervento salvifico messianico:

«Così dice il Signore degli eserciti[13]: Il digiuno del quarto, quinto, settimo e decimo mese si cambierà per la casa di Giuda in gioia, in giubilo e in giorni di festa, purché amiate la verità e la pace» (Zc 8,19).

In questo contesto si comprende perché la salvezza operata da Dio abbia origine da un «seme di pace» (Zc 8,7‑8.12). In sintesi, si può affermare che il messianismo fiorisce dalla pace e fa germogliare, a sua volta, frutti e semi di pace. Talora alleanza e pace compaiono in parallelismi che ne fanno quasi dei sinonimi. L'alleanza è talvolta chiamata alleanza di pace (Nm 25,12; Is 54,10; Ez 34,25), ed è un’alleanza per la vita e non per la morte, al punto che Malachia parla esplicitamente dell’opera di Dio verso il suo popolo come «alleanza di vita e di pace» (Ml 2,5).

2.2. Il bene messianico dello shalom

Venendo a Gesù, il suo agire è in piena sintonia e continuità con quello di Dio. La sua beatitudine sui costruttori di pace, come figli di Dio non è che la realizzazione di quanto già visto. Egli proclama che il Regno è venuto e coloro che vi appartengono ne sono i figli. Ne sono come gli operai e i tessitori, perché sono facitori (artigiani) della pace. Sono gli eirenopoioi, cioè i poioi (realizzatori), dell’eirene (pace). Il pensiero di Gesù ha una continuità anche in quello biblicamente molto radicato di Paolo, che scrive:

«Il Regno di Dio...non è questione di cibo o di bevande, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini» (Rm 14,17‑18).

Come a riecheggiare l’annuncio e la prassi di Gesù, Paolo eclama:

«diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole» (Rm 14,19).

Del resto, il suo epistolario rievoca le concatenazioni bibliche già accennate, quando declina lo shalom messianico con la giustizia, la gioia (Gal 5,22; Rm 15,13), l'unità (Ef 4,3).

Ci sembra fuor di dubbio che lo shalom sia bene il messianico per eccellenza. Essa è pertanto il contenuto più proprio della promessa di Dio. Il «il popolo giusto che mantiene la fedeltà» (Is 26,2) è lo stesso di cui si dice che «il suo animo è saldo; tu (Dio) gli assicurerai la pace, pace perché in te ha fiducia» (Is.26,3).

Occorre tuttavia precisare che nell’intera Bibbia la pace non è superficiale armonia che lascia intatta la violenza degli oppressori sugli oppressi. Con parole drammatiche e forti la Bibbia parla della fine della tirannia e della città dei dominatori. Così, ad esempio, è scritto:

«Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna; perché egli ha abbattuto coloro che dimoravano in alto; la città eccelsa l'ha rovesciata fino a terra, l'ha rasa al suolo. I piedi la calpestano, i piedi degli oppressi, i passi dei poveri» (Is 26,4‑6).

È un tema che mette in risalto la giustizia di Dio contro l’ingiustizia dei tiranni e dei potenti della terra. Lo ritroviamo nella spiritualità dei poveri di Dio (gli anawim Jahvè) fino ad arrivare a Maria di Nazareth e al suo Magnificat:

«Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc 1,51-53).

La pace, allora, è un bene messianico, anche perché ristabilisce la giustizia violata e rappresenta l’effetto dell’opzione di Dio per gli oppressi. Non è la falsa pace condannata da Geremia: quella superficiale di chi nasconde l’opera di Dio e tende di sottrarsi a lui, di coloro che proclamano: «Pace, pace» mentre non c'è pace, «perché dal piccolo al grande commettono frode» (Ger 6, 13‑14).

3) Gesù realizza lo shalom e impegna i suoi discepoli nella sua promulgazione

3.1. Beati i figli della pace e non i figli della guerra

La pace è allora esigente. Gesù ne è ben cosciente e ci ha avvertiti:

«Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione” (Lc 12, 49-51).

Si tratta di una divisione non voluta né da Gesù, né dalla pace, né dai suoi «facitori». Tuttavia sembra una conseguenza di quella radicalità messianica di tipo particolare, alla quale chiama Gesù, una radicalità che di certo si distingue da quella dei maestri del suo tempo. Alcuni di essi erano come ossessionati dall’ideale di una purezza legale tanto esigente quanto lontana dai semplici e dal popolo della terra.

Gesù è decisamente lontano dal loro “messianismo radicale”. Si distingue tanto dagli Zeloti, con il loro integralismo violento, che dagli Esseni, con la loro esasperata santità opponenti i “figli delle tenebre ai figli della luce”, i primi destinati alla salvezza, gli altri al fuoco. Sebbene ritroviamo sulle labbra di Gesù alcune espressioni dei testi di Qumran collegati a tali movimenti messianici, egli predica e pratica una misericordia che non allontana, ma avvicina i peccatori e gli impuri. Anziché coltivare progetti di insurrezione violenta e di un regno che si abbatte sulla terra, Gesù ne disegna le caratteristiche nella sua lenta e complessa maturazione. Egli attribuisce a se stesso le caratteristiche del “figlio dell’uomo”, che anche i testi di Qumran mediano da Daniele, per descrivere il messia come colui che «non si allontanerà dai comandamenti dei santi»[14], e che sarà motivo di gioia e di speranza per pii ed i giusti. Così, ad esempio, troviamo in un frammento:

«Attingete forza voi che lo servite, voi che cercate il Signore. Forse che non dovreste trovarlo proprio voi, voi tutti che con cuore così perseverante lo attendete? Perché il Signore si metterà alla ricerca dei pii (hasidim) e chiamerà per nome i giusti (zaddikim). Sui miti planerà il suo spirito e i credenti ricreerà attraverso la sua potenza»[15].

Quasi in parallelo, Gesù tratteggia l’adempimento dei compiti del Messia davanti ai discepoli del Battista con queste parole:

«Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,4-6).

E con ciò, applica a sé la profezia di Isaia 61, già rievocata nella sinagoga di Nazareth. Una profezia sorprendentemente vicina a un altro testo di Qumram, dove è scritto del messia:

 «I pii glorificherà al trono del Regno eterno. I prigionieri libererà, i ciechi farà vedere e gli op[pressi] egli riabiliterà». «...allora guarirà i malati, risveglierà i morti e annuncerà gioia ai miti, ... guiderà i santi e li custodirà...»[16] .

Tuttavia, a fronte di una giustizia legale, Gesù parla della superiore giustizia, radicata in quella di Dio, e della sua regalità a vantaggio dei poveri e di coloro che non contano niente. Per lui il Regno predicato per gli infelici non dipende dalle virtù dei poveri. È il Regno delle beatitudini che rivelano la sorprendente gratuità di Dio e la natura “particolare” del suo stile di regnare[17]. Gesù si distanzia decisamente anche da ogni pretesa di purezza legale (tanto degli Esseni che dei Farisei) e dalla radicalità apocalittica, che arrivava all’idea della “guerra santa”, come attestano ancora alcuni scritti di Qumran:

«... il tempo in cui tu hai loro comandato ... non a ... e voi  mentirete sul suo patto ... essi dicono: “fateci fare la Sua guerra ... perché abbiamo profanato” ... i vostri [nemi]ci devono essere annientati e non devono sapere che con il fuoco ...»[18].

La strada di Gesù, invece, è quella di chi ripudia la violenza. Si potrebbe dire che se nei testi di Qumran c’è la formulazione della beatitudine dei violenti, tanto da scrivere «... fatevi coraggio per la guerra e ciò dovrà esservi computato a giustizia…»[19], nel Vangelo c’è l’affermazione contraria. Si tratta di un’affermazione certamente vicina al pensiero, all’animus di Gesù ed è la beatitudine dei facitori di pace. Proprio costoro sono quelli che Dio accoglie, “giustifica” e chiama suoi figli, sicché essi sono figli della luce e non coloro che si devono preparare alla guerra.

3. 2. Gesù realizza il regno messianico della pace

Sono anche queste le ragioni che ci fanno concludere che Gesù è un re di pace perché è il messia ed è il messia perché è un re di pace. Pertanto è l’unto di Dio. Realizza le profezie che lo caratterizzavano come principe della pace:

«Un bimbo è nato per noi, c'è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno che egli viene a consolidare e a rafforzare con il diritto e la giustizia» (Is 9,5‑6).

Gesù adotta uno stile regale tutto suo, intriso di mitezza, sì da far ricordare il «re umile», venuto sull'asinello dei poveri e degli antichi patriarchi: «Ecco viene a te il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina» (Zc 9,9).

Lo stesso profeta aveva preannunciato il disarmo, affermando del messia:

«Farà sparire i carri (di guerra) da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l'arco da guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle genti» (Zc 9,10).

Ciò in armonia con la grande profezia che nel tempo messianico vedeva i popoli dediti finalmente alla costruzione della pace:

«forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra» (Is 2, 4; cf. anche Mi 4,3).

Per tutte queste ragioni la notte della nascita del Messia è un annuncio inequivocabile: «gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Come a dire: la pace costituisce il motivo fondamentale per rendere gloria a Dio. La pace sulla terra è la gloria di Dio.

È un programma confermato e mai smentito da Gesù, che, come abbiamo visto, collega nel suo insegnamento la gloria di Dio nel cielo e la venuta del suo Regno con la pace da costruire sulla terra (Mt 5, 1-11). Al punto che, quando ne vede i primi frutti, esulta di gioia indicibile (Lc 10,21-22; Mt 11, 25-26).

Egli coinvolge i suoi discepoli nella stessa missione, in un annuncio che si traduce in gesti: «Entrando nella casa, rivolgete il saluto [cioè augurate lo shalom]» (Mt 10, 11). È lo shalom che prende corpo nella prassi, conformemente all’imperativo: «guarite gli infermi , risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni»(Mt 10,8).

Non dobbiamo inoltre dimenticare che il binomio pace-gloria è presente anche nella scena dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme. Luca riformula infatti l'acclamazione messianica di «Osanna al figlio di David», con «Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli». Ricollega la gloria a Dio e la pace questa volta nei cieli, ma quasi a dire: «si realizza oggi la pace che Dio vuole nel cielo».

Si tratta del compimento di ciò che Gesù ha perseguito in tutta la sua vita. Con quella prassi che si può chiamare “prassi di pace”. I suoi passaggi più importanti sono, come già visto altrove[20], un agire che valorizza la convivialità, che esalta la misericordia che richiama continuamente al servizio. Pertanto: il perdono predicato e praticato, la resistenza al male con il bene, le reiterate indicazioni a recare un messaggio che aggreghi i dispersi e rinfranchi gli scoraggiati.

Cosciente di tutto il valore di un agire informato dalla pace e ad essa sempre orientato, Gesù non si stanca di affermare la novità del regno: «avete inteso che fu detto agli antichi ... ma io vi dico» (Mt cc 5,20-48), richiamando alla speranza persino nel momento del giudizio: «Alzatevi e sollevate la testa, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21,28)[21].

Egli dà finalmente corpo a quelle parole di Geremia, che dalla sofferenza dell’esilio rievocava il cuore della promessa di Dio:

«Io conosco i progetti fatti a vostro riguardo ... progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11).

In Gesù si realizzava l'identificazione del profeta Michea tra il messia e la pace, quando preannunciandone la venuta, affermava: «e sarà lui la pace» (Mi 5,4)[22].

Identificatosi nella sua missione di pace, Gesù diventava infine pace egli stesso, soprattutto negli ultimi giorni della sua vita terrena. Al punto che Paolo ha potuto scrivere di lui: «Egli infatti é la nostra pace», in un contesto storico che confessa che Cristo è «Colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia» (Ef 2,14). Facitore di pace («beati i facitori di pace!)», Gesù compiva adesso la pace nel suo corpo e attraverso la croce (Ef 2,15‑17). 

Nella lettera agli Efesini di Paolo troviamo menzionato soprattutto uno dei grandi effetti della riconciliazione operata da Cristo: la rappacificazione tra ebrei e pagani.

Non è però da dimenticare che la riconciliazione che Cristo morto e risuscitato opera sui diversi i livelli e tra tutte le realtà esistenti.

La sua pace è ri-donata da Gesù ai suoi discepoli la sera della Pasqua dopo la sua risurrezione. Gesù riconferma la “sua” pace[23] che riconcilia con Dio tutti gli uomini, tutto l’uomo e la stessa creazione. È una pace che passa attraverso il ministero della riconciliazione e che Gesù ugualmente affida ai suoi apostoli[24]. È una pace che avvia l’era definitiva della pace messianica e diventa fermentazione di una liberazione destinata a tutta la realtà cosmica[25]. Si comincia così a realizzare il sogno profetico di quella nuova creazione, che vedrà la riconciliazione anche tra gli animali dei campi, gli uccelli dell'aria e i rettili della terra (Os 2,20).

La pace come dono e come compito, la sera della Pasqua

«La sera di quello stesso giorno… venne… si fermò in mezzo a loro  … disse loro  di  nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”» (Gv 20,19-22).

Compito di riconciliazione e di discernimento

Avvio dell’era definitiva della pace messianica
che diventa fermentazione di una liberazione destinata a tutta la realtà cosmica (Rm 8: 19-21):

«La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio».

Pace come nonviolenza attiva

La nuova giustizia superiore all'antica: Mt 5,19-22

«Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna».

Mt 5, 38-48

a)                    Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra;

b)                    e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Dá a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle.

c)                     Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?

Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.


[1] R. FABRIS, Gesù di Nazareth. Storia e interpretazione, Cittadella Ed., Assisi 1983, 85ss.

[2] J. P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico 1, Queriniana, Brescia 2001.

[3] La prima parte è intitolata Le radici del problema e tratta oltre alle questioni di metodo anche quella delle fonti e dei differenti approcci al Gesù storico; la seconda è su Le radici della persona, per un’identificazione dell’ambiente in cui visse  Gesù e del rapporto della sua persona con esso; la terza  riguarda il suo ministero pubblico; la quarta si occupa degli ultimi giorni tragici della vicenda di Gesù.

[4] J. P. MEIER, Un ebreo marginale…, cit., pag. 20.

[5] Così, ad esempio, nel 2° volume alla nota 33, Meier manifesta un’idea preconcetta e piuttosto generica quando evoca la teologia della liberazione, scrivendo di una «forzata attualità al modo della teologia della liberazione».  Tale posizione non sembra del tutto coerente con la presa di posizione contro le interpretazioni  recenti americane su Gesù solo come maestro di sapienza individuale. Di Gesù l’autore dice che ha condiviso le posizioni escatologiche di Giovanni (ivi, 143-144). Ma allora è legittimo domandarsi: perché non fare un passo avanti nel senso di una prassi che, distanziandosi dal Battista, manifesta la concretezza di una salvezza con innegabili segni di guarigione e liberazione degli uomini? Uno studio più attento della teologia della liberazione avrebbe messo in luce, non solo le differenti forme da questa assunte, ma anche il fatto che questa collega la prassi cristiana alla storicità degli atti salvifici di Gesù. Si sarebbero evitate le generiche insistenze contro la summenzionata teologia (cf. ancora nel 1° vol. la pag. 40 e nel 2° la nota 38 di pag. 447).

[6] Cf., ad esempio, quanto scritto su R. A. Horsey¸ Jesus and the Spiral of Violence. Popular Jewish resistance in Roman Palestine, Harper & Row, San Francisco 1987, pur con il giudizio più temperato sul volume dello stesso autore  in collaborazione con J. S. Hanson, trad. it. Banditi, profeti e messia, Paideia, Brescia 1995. 

[7]Al contrario, tutto è rimandato alla fine della storia, dal momento che Meier può scrivere: «Allora e, solo allora, gli affamati sarebbero stati saziati, i piangenti finalmente consolati, le iniquità di questo mondo rovesciate e tutte le promesse elencate  nelle beatitudini di Gesù mantenute, per lui oltre che per coloro che a lui prestavano ascolto» (J. P. MEIER, Un ebreo marginale…, cit., 2,  1242).

[8]  G. Mazzillo, Gesù e la sua prassi di pace, Merdiana, Molfetta (Ba), 1990.

[9]  Su questo cf. J. P. MEIER, Un ebreo marginale 2 ..., cit., p. 209 ss.

[10] Mt 11,16-19: «Ma a chi paragonerò io questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete  ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto. E' venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: Ha un demonio. E' venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere».

[11]  Meier critica a riguardo l’opinione di Perrin cf. ivi 293 ss.

[12] Cf. ivi, pag. 365 ss.

[13] Più opportunamente da tradurre “delle schiere celesti”, cioè “dell’universo”.

[14] Mia traduzione dal tedesco, dalla raccolta dei testi originali di R. Eisenman - M. Wise (Hgg.), Jesus und die Urchristen. Die Qumran-Rollen entschüsselt, Bertelsmann, München 1993, 4Q521 (tavola 1) I frammento, 2 colonna, pag. 29 (ed. oginale inglese: Id., The Dead Sea Scrolls Uncovered, Element Books, Dorset 1992, England, tr. Italiana: Id., Manoscritti segreti di Qumran, Piemme, Casale monferrato 1994). Altra edizione: F. GARCÍA MARTÍNEZ (a cura di), Testi di Qumran (edizione italiana a cura di Corrado Martone), Paideia, Brescia 1996.

[15] Ivi.

[16] Ivi.

[17]A questo riguardo, il biblista Dupont scrive: «Gli autori che abbiamo ora citato, e molti altri con essi, si rendono conto che le beatitudini hanno un valore religioso, e in questo hanno certamente ragione. Ma pensano di poter scoprire questo senso religioso soltanto nelle disposizioni spirituali di coloro ai quali sono rivolte le beatitudini. Noi cercheremo di dimostrare che il privilegio dei poveri e degli sventurati trova, al contrario, il suo vero fondamento non tanto nelle disposizioni spirituali attribuite a queste categorie di persone, ma nella natura del Regno che sta per venire, nelle disposizioni di Dio il quale intende esercitare la sua regalità a favore dei pii diseredati. Le beatitudini sono prima di tutto una rivelazione sulla misericordia e sulla giustizia che devono caratterizzare il Regno di Dio» (J. Dupont, Le beatitudini I¸ Paris 1969, pag. 516.

[18] R. Eisenman - M. Wise (Hgg.), Jesus..., cit., che fa riferimento a 4Q471, Framemnto 1, pag. 39.

[19] Ivi.

[20] Cf. il già citato G. Mazzillo, Gesù e la sua prassi di pace, cit. cc. 8-9-10.

[21] Pur con un discorso che riprende schemi del linguaggio talora spaventoso di quel genere letterario profetico, Gesù annuncia la speranza e la gioia e sostanzialmente ripete il tenore delle beatitudini: il capovolgimento da una situazione di persecuzione e di sofferenza in una situazione di gioia e di liberazione messianica. Il rinnovamento reca anche quella palingenesi, cioè la rigenerazione totale già accennata, dell'intero cosmo (Is 66,22; cf. Is cc. 60‑62) ed è, in definitiva, il tramonto di un mondo violento e peccaminoso e l'inizio di quei cieli nuovi e terra nuova, «nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2 Pt 3,13). Del resto, alla ristabilita armonia creaturale, tipicamente messianica, allude anche la scena di Gesù nel deserto, in compagnia con le fiere e con gli angeli, di Mc 1,12‑13. Ciò potrebbe essere una testimonianza che la coscienza messianica, già presente nell' interpretazione teologica di Gesù, sia poi passata a quella della comunità primitiva: non una coscienza vuota, ma dai contenuti tipicamente messianici.

[22] Così come si trova in alcune accurate traduzioni di questo passo, il Messia è la pace e non piuttosto egli porterà la pace. Cf. Das Neue Testament, la traduzione adottata dalle conferenze episcopali di lingua tedesca, che traduce: «Und er wird der Friede sein».

[23] «Vi lascio la pace, vi do la mia pace.  Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27)

[24] «Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”» (Gv 20, 21-23).

[25] Proprio per questo la pace di Gesù è diversa da come la dà il mondo (Gv 14, 27), ma è pur sempre salvezza da annunciare all’intera creazione (pase te ktìsei), perché La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio (Rm 8, 19-21).

 

Convegno di Locri 4-5/3/03 "La Gestione Etica delle Risorse del Territorio" Diocesi di Locri – Gerace -

posta elettronica: pastorale.lavoro@tiscalinet.it via Garibaldi – 89044 Locri (RC) tel. 0964.20779 fax 0964.230058

Intervento di Gianni Mazzillo

Gestione etica delle risorse sul territorio: rilettura biblico-teologica

Introduzione

Il tema può suonare insolito. È tuttavia importante. Soprattutto nel suo riferimento all'etica. La gestione delle risorse del territorio è anch'esso un argomento da non sottovalutare dal punto di visto morale, visto che tocca non solo il denaro, insieme con le altre risorse, quali la terra, la sua posizione naturalistica e geografica, la sua cultura e la sua storia, ma tocca le persone che ci vivono e che dalla gestione di quelle risorse hanno ricadute di enorme importanza. Esse riguardano infatti la loro esistenza e quella dei loro figli, ma riguardano parimenti il futuro della loro cittadinanza e del loro territorio.

L'analisi che state conducendo in questi due giorni mira a dare un discernimento critico che non esclude la fede, ma ha in essa uno dei suoi riferimenti centrali. A partire dal dato di fede, legato prevalentemente alle fonti bibliche, come mi avete chiesto, cercherò di argomentare sull'impostazione che la Parola di Dio richiede al credente nel suo rapporto con la terra, con la sua gente, con gli altri e con il futuro di tutti. Tutto ciò è molto vasto. Mi limito pertanto ad alcune considerazioni generali, ma non per questo astratte, cominciando da una considerazione che fa da sfondo all'intero discorso, quello della reciproca responsabilità che abbiamo gli uni verso gli altri e che scaturisce dall'ordinamento dell'amore oltre che dall'ordine della creazione.

1) Siamo gli uni responsabili degli altri

Questo principio è fondato sulla reciproca appartenenza degli esseri umani, in forza della nostra comune provenienza da Dio e per la nostra comune appartenenza a lui. È un'appartenenza che va declinata anche sul versante storico-sociale della vicenda umana, sì da includere la cittadinanza, l'uso delle risorse e l'impegno per un futuro qualitativamente vivibile per tutti.

Partiamo dal principio che troviamo nella lettera di Paolo ai Romani "Nessuno di noi ...vive per se stesso e nessuno muore per se stesso" (Rm 14,7). L'apostolo aggiunge anche una motivazione strettamente teologica, dicendo "perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore" (Rm 14,8).

"Nessuno vive per se stesso..." è da capire nel contesto dell'affermazione che se non abbiamo nessun debito verso una legge esterna ed oppressiva, dalla quale Gesù ci ha liberato, nessuno di noi può vivere solo per se stesso, pur dovendo sempre salvaguardare quella libertà dall'oppressione, che faceva dire allo stesso apostolo: "Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù" (Gal 5,1).

Non vivere per se stessi significa riconoscersi innanzi tutto in una reciproca apparenza più che in una dipendenza, in quanto appartenenza precedente alla volontà, perché ogni essere umano è in riferimento non astratto e generico ad altri, ma in riferimento concreto a una famiglia, a una tribù, a una cultura, a una religione, insomma a un popolo.

La comune appartenenza implica un essere l'uno con l'altro e un essere l'uno per l'altro. È un fatto attestato abbondantemente dalla Bibbia ed è in ogni caso un dato antropologico insopprimibile, derivante dalla stessa "natura" umana. È un dato che si manifesta in maniera più evidente nelle società e culture arcaiche, dove l'appartenenza ad una sorte comune è espressa in tutte le forme e in tutti i più differenti aspetti della vita umana, che è sempre e comunque una vita sociale. Essere esclusi dalla comunità significa essere esclusi dal flusso della vita. Il fatto stesso di vivere comporta primariamente ed originariamente una specie di reciproca obbligazione ad essere con l'altro e per l'altro. Se di un'etica dobbiamo qui parlare, non ci sarà difficile scoprire che essa obbedisce al principio della responsabilità comune e del sentire e vivere la vicenda dell'esistenza in solidum. Il fatto di venire al mondo non è mai un'astrazione, ma è sempre un venire in un determinato mondo, in un preciso contesto, contrassegnato da un territorio e da una comunità che ha una sua etica.

Per i credenti in Cristo è questo il senso dell'espressione essere in debito l'uno con l'altro. Ma è anche qualcosa di più: qui infatti si realizza l'adagio paolino che invita a saper ridere con chi ride e piangere con chi piange (Rm 12, 15: "Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto"). Ogni singola storia resta così coinvolta in una vicenda che non è più soltanto "sua", ma è di tutta la comunità e in essa può realizzare pienamente se stesso.

In questa concezione generale il debito reciproco della solidarietà, che nel linguaggio cristiano assume il nome della "carità", non è un indebitamento di stampo negativo, ma un coinvolgimento nella vicenda degli altri, vissuta come una comune vicenda, una storia comune, che è degli altri e per questo è anche la propria. Più che di un'obbligazione si tratta di questa comune appartenenza, che richiede certamente regole da rispettarsi da parte di tutti, ma non per un'obbedienza passiva a una norma esterna o aliena, bensì per assecondare al meglio e sviluppare a vantaggio di tutti una comune realtà che si è ricevuto e si riceve continuamente in dono. Ogni singola persona se la trova già davanti a sé e l'accoglie, vive in essa e di essa, così come si vive nell'aria e nel mondo in cui si nasce. Quest'ambiente comune, che ci porta e che noi dobbiamo tutelare per proteggere la vita e il suo futuro, dicevano che riguarda innanzi tutto la terra e le persone con le quali viviamo. Cominciamo da queste ultime, che sono in ordine d'importanza le prime e che alla fine danno valore anche al territorio in quanto terra e ambiente storico-culturale.

2. Siamo stati affidati l'uno all'altro

La concezione biblica giudaico-cristiana appare, in questa prospettiva, l'esatto contrario della concezione egocentrica della vita. Il principio già citato del vivere (e persino del morire) non per se stessi ma "per il Signore" non solo non esclude gli altri, ma li contiene intrinsecamente e inscindibilmente per lo stesso fatto che il Signore ci rimanda continuamente alla pratica della carità come verifica dell'amore verso di lui. Porto un solo testo, quello insuperato ed insuperabile di Giovanni:

<<Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello>> (1Gv 4,19-21).

Alla stessa conclusione conduce in maniera stringente la realtà della nostra comune appartenenza a Cristo, fino ad essere in lui un solo corpo. L'essere Chiesa, in quanto unico organismo vivente, che si alimenta dell'unico pane che è Cristo, spinge a condividere il pane di una comune progettualità, proprio perché muove dalla condivisione di uno stesso presente. Se al momento della partecipazione all'unica eucaristia preghiamo per ottenere un unico pane e un unico perdono, ci impegniamo contemporaneamente e irreversibilmente a dare agli altri lo stesso perdono e a spezzare con loro lo stesso pane che ci mantiene in vita. Vale a dire quel pane che si chiama speranza e progetto, impegno e responsabilità per l'altro, perché vuole garantire non una mera sopravvivenza, ma una vita degna di tale nome. E con la vita, ovviamente, vuole assicurare rapporti riconciliati, rapporti di fraternità e di pace, rapporti sempre tesi alla liberazione e all'attestazione che "un altro mondo è possibile".

Il nostro legame con Cristo è pertanto un comune e inscindibile legame con gli altri, non solo perché ogni altro è comunque legato a Cristo e noi siamo tutti le membra dello stesso corpo, ma anche perché il legame con gli altri è una logica conseguenza della "novità" che Cristo ci ha portato. Possiamo allora indicare la linea etica portante nella gestione delle risorse, dicendo che siamo in debito l'uno con l'altro e pertanto siamo in debito della qualità della vita di tutti e non di pochi privilegiati o di una famiglia o di alcune famiglie e nemmeno di questa o quell'altra consorteria. La nostra responsabilità comune e reciproca è il rimedio migliore contro l'individualismo e la ricerca di privilegi che ignorano la sorte e i problemi degli altri, per la semplice ragione che la sorte e i problemi degli altri sono anche la mia sorte e i miei problemi. Contro i mali atavici di un'autodifesa che porta ad arroccarsi e a rinchiudersi a riccio, non c'è migliore terapia che quella dell'amore, un amore vero e non fittizio, praticato e non declamato, storicizzato e non spiritualizzato. È quello espresso con incisività ancora dall'apostolo Paolo e che recita "Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge" (Rm 13,8).

È l'amore, dunque, ciò che ci rende responsabili e liberi nello stesso tempo; ci dà il gusto della vita perché ci lega agli altri. Ci lega a Dio, sorgente della vita e della libertà, autore della natura e del mondo in cui viviamo. In quanto tale, ci riconduce alle nostre radici e pertanto alla comunità umana originaria da cui proveniamo e nella quale il nostro stesso vivere ha senso e valore. Tutto ciò significa un'assunzione di responsabilità verso gli altri, verso ogni altro, che come me viene da Dio e a lui fa ritorno. È sulla stessa terra e insieme con me ha la responsabilità sia della terra che di tutti gli altri.

La responsabilità appare pertanto un impegno a custodire l’altro e la sua vita, a tutelare il suo progetto di esistenza, nel progetto che Dio ha pensato per lui. Tale responsabilità per le sorti dell'altro nasce dalla consapevolezza già accennata della partecipazione di ogni essere umano alla stessa umanità, al punto che nessuno è veramente "estraneo". La figura emblematica che indica, per contrasto, dove conduce la mancanza di responsabilità per il fratello, è Caino, la cui insensatezza si mostra nelle parole con le quali vuole nascondere il suo delitto, l'assassinio di Abele: "Sono forse io il custode di mio fratello?" (Gen 4,9).

Dio non può gradire quelle parole, perché è vero il contrario: ciascuno è custode di suo fratello. Ha contratto con lui un debito per il fatto di essere venuto al mondo, essendo figlio di Dio come l’altro. Il fondamento di questa sua cura dell’altro è da riscoprire nella cura che Dio ha per tutte le sue creature. È cura, che, come si diceva, nasce dall’amore. La letteratura sapienziale esprime l’amorevolezza di Dio verso ogni cosa, oltre che verso ogni essere umano. Arriviamo così alla salvaguardia della creazione come dono e come responsabilità che Dio ha affidato agli uomini. È un ulteriore sviluppo della dimensione etica nella gestione delle risorse a partire da quelle della natura in genere e della propria terra in particolare.

3) Salvaguardia della natura e custodia della propria terra

I fondamenti biblico-teologici di questa idea sono molteplici, ricchi e profondi. Già al suo esordio, la terra intera e ciò che essa contiene è affidata alle cure della prima coppia umana. Attraverso due figure, quella maschile e quella femminile, che rappresentano Dio sulla terra e ne sono la sua immagine, un'immagine paterna e materna insieme, Dio affida la vita e la terra a tutti gli esseri umani. Essi sono chiamati a mantenere la vita sulla terra e a trasmetterla attraverso i figli, a coltivare e custodire il giardino, che simboleggia il mondo intero (Gen 2,15), a dare un nome agli animali. Questi compiti sono così importanti, da far parlare dell'essere umano, nella sua valenza maschile e femminile, come vicerè di Dio e come trasmettitore e continuatore della sua opera creativa. Sono compiti fondamentali confermati alla nuova umanità, quella che entra ed uscirà viva dall'arca del diluvio. A Noè Dio affida nuovamente il compito della tutela della vita e della natura, quando gli prescrive "Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell'arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te: siano maschio e femmina" (Gen 6,19).

È certamente l'affidamento di un mondo non solo umano ma complessivo, con i suoi animali e con tutto ciò che lo caratterizza.

Per noi, che viviamo in una terra particolare, con la sua bellezza e le sue asperità, con la sua tipicità e i suoi valori, la Parola di Dio è una motivazione forte a salvaguardarla e a proteggerla, a custodirla e non inquinarla. Ci conferisce il compito di un suo risanamento e di una sua effettiva ricostruzione laddove essa è stata rovinata, inquinata, avvelenata, insanguinata.

È il compito della ricostruzione che non possiamo ignorare, perché una lettura attualizzante della Parola di Dio dice a noi ciò che diceva agli Ebrei avviliti e dispersi all'epoca del loro esilio.

"Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie; costoro abbiano figlie e figli. Moltiplicatevi lì e non diminuite. Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere (Ger 29, 4-7).

È un invito che ricorre anche nell'Esortazione pastorale dell’Episcopato Calabro dopo il III Convegno Ecclesiale Regionale di Paola del 1997, che invita tutti con queste parole:

"Essere ancora più costruttivi, fino ad inventarsi ed inventare per gli altri, creativamente e localmente, nuove opportunità di lavoro, a guardare con fiducia alla vita e al suo futuro. In tal modo, la nostra Calabria potrà essere autopropulsiva, senza aspettarsi dall'alto la soluzione dei suoi atavici problemi. Ciò non toglie, ovviamente, la responsabilità morale, oltre che civile, delle autorità competenti a fare interamente la loro parte, senza assistenzialismi, ma anche senza fughe, in nome di un superato meridionalismo (n. 21).

Con queste premesse, le Chiese calabresi prendono a cuore soprattutto la situazione dei giovani, in particolare i disoccupati, ancora "parcheggiati" nelle proprie famiglie. Essi sono invitati ad uscire da se stessi e a lottare contro un attendismo che non costruisce e che diventa consuetudine e modo di passare il tempo. Se il Vangelo è lieta speranza per tutti, lo è in particolare per chi ancora non ha scoperto il suo campo d'azione e il valore del suo impegno per la sua terra e per la sua gente. I Vescovi calabresi hanno invitato a trovare "nuove forme di creatività" in questa linea e hanno impegnato le comunità ecclesiali locali a praticare forme di accompagnamento in tal senso.

4) Fare tutta la propria parte nelle comunità d'appartenenza

Nel più complessivo discorso della responsabilità il creato e per la natura a noi più vicina, è da intendersi anche il compito al quale Dio ci associa nella corresponsabilità verso la propria comunità di appartenenza. È un compito non senza fondamenti teologici, che invece sono abbondanti. Possiamo ricavare i principi generali dall'idea che Israele ha della propria realtà storica e che i cristiani hanno della loro comunità da vivere come realtà di comunione (koinonìa) e di missione (martyrìa), ma anche, proprio per questo di liberazione (eleutherìa). Rispetto a Israele si può sintetizzare la sua constante coscienza di dover tutto alla potenza di Dio. Egli lo ha radunato e liberato, gli ha dato la terra, assicura la sua prosperità e garantisce il suo futuro. Assicura un tempo messianico di riconciliazione e di pace duratura. Israele sa anche che la terra in cui vive e di cui si alimenta è il suolo da lavorare e sul quale abitare. È la terra affidatagli da Dio, perché al pari della prima coppia umana, sia fecondo e la custodisca. Come terra appartiene a Dio, che ne è il creatore e resta di sua proprietà. A lui deve sempre essere riferita. Così, per esempio è scritto che Mosè afferma davanti al Faraone, signore dell'Egitto, fattosi signore anche degli uomini: "Quando sarò uscito dalla città, stenderò le mani verso il Signore: i tuoni cesseranno e non vi sarà più grandine, perché tu sappia che la terra è del Signore".

Se, come abbiamo ricordato nell'anno giubilare del 2000, la terra doveva essere restituita ai debitori al tempo prescritto (Lv 25,23-28), ciò significa che corrisponde alla volontà di Dio che tutti i suoi figli, senza alcuna eccezione, facciano l'esperienza gioiosa della libertà da ogni condizionamento storico e sociale. Per noi cristiani ogni giorno ed ogni anno rappresenta l'occasione per testimoniare la volontà di salvezza da parte di Dio soprattutto per i più infelici, per i più poveri. A dire il vero, per gli "impoveriti". La nostra è chiamata ad essere, nella sua tipicità, terra dove inizia la festa degli oppressi liberati, il riscatto degli infelici. È tempo che viviamo la profezia messianica di Isaia (Is 61, 1-3), che Gesù applica alla sua missione e a tutta la sua prassi quando dopo aver letto il rotolo del profeta Isaia, applica a sé le parole che dicono "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore". E aggiunge "Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi" (Lc 4,17-21).

Le consegne alle nostre comunità cristiane sono su questa scia. Sono consegne di un annuncio e di una prassi di liberazione. Il Vangelo è annunciato agli infelici, una speranza è garantita agli afflitti, un accompagnamento costante e fedele deve essere assicurato agli impoveriti, perché riprendano coraggio e reagiscano, denunciando le ingiustizie e vivendo nella nuova ottica della solidarietà che è condivisione. L’insegnamento di Gesù non fa che confermare e motivare ulteriormente il principio della responsabilità solidale verso il fratello (ed ogni uomo lo è, aggiunge Gesù, anche il nemico) sulla base della ineguagliabile misericordia di Dio. La parabola del servo spietato con il suo simile che gli doveva una cifra irrisoria, mentre a lui era stata condonata una cifra comunque insolvibile (Mt 18,23-35) attesta, una volta di più, che il cristiano non può pretendere da chi non ha, proprio lui che ha ricevuto e riceve tutto: "Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo" (Lc 6,30 cf. Mt 5,42; Lc 12,33; Mt 7,12; Tb 4,15).

La gestione etica delle risorse deve tener conto di queste premesse, valorizzando l'uomo, più che la ricchezza e considerando come prime preziose e insostituibili risorse soprattutto le persone. È l'opposto di una concezione economica, che vuole essere disgiunta da qualsiasi etica, per poter parlare di milioni di esseri umani come vittime sacrificali inevitabili (al pari di quelle delle cosiddette guerre inevitabili), vittime delle leggi del progresso economico. Tanto che ormai siamo anche al calcolo di incidenti e di morti dell'attuale sviluppo. È un prezzo - si dice - che, come al solito, i più impoveriti dovranno pagare e che stanno già pagando[1].

Noi non possiamo né vogliamo rassegnarci a una programmata eliminazione sacrificale, in nome del progresso, dei più deboli e dei più indifesi della società. Il modello che vogliamo e possiamo sviluppare non deve sterminare nessuno, deve invece dare la possibilità a tutti di esprimersi con la propria particolarità e con le proprie risorse interiori, prima ancora che esteriori e materiali. Di materialismo e di superficialità il mondo è già colmo. C'è bisogno che inizi una nuova tendenza, quella che non si rassegna a volere il proprio benessere a discapito dell'altro, perché impara continuamente da Dio che la salvezza è un fatto collettivo e che nessuno può dirsi felice finché un solo essere umano della nostra terra e dell'intera terra è infelice.

NOTA

[1] Confronta a riguardo H. Assmann - F. J. Hinkelammert, Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia [Teologia e Liberazione 5], Cittadella Editrice, Assisi 1993, 305, che si riferisce a E. J. Mishan, Analisi costi-benefici, Etas, Milano 1974. Nella sua 3^ parte l'autore parla espressamente di "effetti esterni" come effetti inevitabili dei "nostri" modelli di sviluppo. Ma vedi anche la bibliografia su "calcolo di vite".