Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Intervento alla presentazione del libro di Aleardo Dino Fulco,
Tortora nel secondo dopoguerra
, Ferraro, Napoli 2002.

L’espressione di gratitudine al prof. Aleardo Dino Fulco per l’occasione di questo incontro di stasera non è formale. Il suo libro, pur contenuto  e limitato a due episodi importanti per la storia di Tortora, ha acceso alcune  luci sul nostro passato e consente di riascoltare alcune voci che da esso ci chiamano. Un passato nemmeno lontanissimo,  che ci appartiene e che pertanto ha  il fascino e l’inevitabile venatura di rimpianto di tutto ciò che fa parte della propria storia personale e collettiva.

Sono due lembi della nostra storia recente. Il secondo – relativo a Don Francesco Donadio, che qui saluto e ringrazio con particolare affetto – è molto vicino a noi nel tempo. Consente a una buona parte dei presenti non solo di riviverne particolari ed emozioni, ma di sentirsi anche, se non proprio protagonisti, almeno membri attivi e partecipi di questo  stesso racconto. Protagonisti e partecipi di una vicenda che, al pari dell’altra, non spetta a me né narrare di nuovo, né giudicare, ma alla quale vorrei tuttavia accostarmi con qualche possibilità di interpretazione, che ritengo interessante prendere in considerazione e proporre.

Pur nella loro diversità e distanza di tempo, la rivolta dei tortoresi contro il Commissario prefettizio, il Maresciallo Calabrò, del 30 Gennaio 1944, e la protesta contro l’inviato del Vescovo Don Domenico Petroni, del 10 Febbraio 1957, hanno elementi in comune che mi sembrano rilevanti. Riguardano sia i loro attori principali sia le dinamiche storico-sociali che li hanno visti coinvolti.

Per essere più semplice, faccio intanto una prima constatazione. La rivolta del ’44 e la protesta del ’57 hanno due protagonisti vistosamente in comune: l’ex podestà Guglielmo Grassi e il popolo (o più modestamente una parte del popolo) tortorese.  Guardando all’esito dei due episodi, nel primo di essi l’uno e l’altro appaiono come vincenti. Il Grassi, che è rimesso al suo potere dalla volontà popolare e il popolo stesso (o quella parte di esso) che si era adoperato perché ciò avvenisse.

Nella protesta del 57 invece, sebbene compaiono tra i protagonisti, pur in altra funzione, lo stesso Grassi  e ancora una volta il popolo tortorese  (o anche qui una parte di esso), a vincere veramente e direi definitivamente è solo l’ex-podestà, diventato nel frattempo e con tutti i titoli e le onorificenze sindaco di Tortora, sebbene dopo l’interregno della consorte, Carmela Capalbi.  Ma quanto al sindaco Grassi, una parte di popolo lo aveva voluto 13 anni prima di nuovo al comune, una parte di popolo lo vede ora sul versante opposto. La protesta non è adesso proprio contro di lui, ma certamente è a favore di uno che da lui e dalla sua amministrazione era stato tanto osteggiato, da ottenerne, e permettetemi di aggiungere, ingiustamente,  la rimozione. Colpisce il fatto che, a memoria dei partecipanti a quella protesta che voleva consentire a Don Francesco Donadio di celebrare la messa domenicale, visto che si trovava a Tortora, i più attivi nella stesura dell’elenco dei manifestanti e nella loro denuncia ai carabinieri siano stati i più vicini a quel sindaco, lo stesso che una parte del popolo, anni addietro aveva voluto riportare a governare il paese di Tortora.

Una storia di potere dunque? Sì, anche una storia di potere: di recupero del potere nel primo caso e di conservazione di potere nel secondo. E come si perseguì questo scopo nel secondo? Facile a dirsi, anche perché la procedura è stata magistralmente e amaramente descritta da Alessandro Manzoni: l’intervento del conte-zio. Chi è scomodo viene allontanato. Allontanato dal potere o dall’alleanza di due poteri, che non amano scontrarsi tra loro, anche e soprattutto perché il loro consorzio è di grande utilità ad entrambi. Il prete scomodo non sfuggiva – speriamo che ciò non avvenga più – alla dinamica dell’alleanza dei poteri, sì anche del potere religioso, che in questo caso era – e spiace dirlo e in casi simili è - puro e semplice esercizio di potere, lontano dall’esempio e  dall’insegnamento di Gesù: 

«I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20, 25-28).

È una pagina fondamentale per la Chiesa e il suo modo di essere nel mondo e tra gli uomini. È però una pagina alla quale occorre prestare attenzione da tutte le parti. A scanso di equivoci, dirò che essa viene disattesa innanzi tutto dai detentori di un qualche potere, ma non solo da essi. Intanto coloro che hanno potere adottano il metodo del conte-zio, allorquando un superiore – mettiamo politico – si mette d’accordo con un superiore – mettiamo – religioso, non solo per far trasferire un parroco, ma anche per impedire una nomina o per ostacolare  una persona o qualche suo progetto. Parlo ovviamente di progetti di utilità altrui e non di progetti dettati dall’ambizione personale. Per ciò che concerne la Chiesa, questi, per la verità, dovrebbero ostacolarli gli stessi responsabili ecclesiastici, oltre che il buon senso e l’intuito della comunità cristiana. 

Ma dicevo che la pagina evangelica del servizio e del disinteresse, della semplicità e della gratuità potrebbe essere disattesa anche da parte di altri soggetti. Da parte, per esempio, di noi preti e ciò potrebbe accadere quando la “nostra missione” fosse vissuta più come realtà nostra, cioè personale e protagonistica, anziché come missione, cioè come essere mandati, “messi”, come il messo comunale, di venerata memoria, che compiva un’attività che gli era stata affidata. Inoltre, mi sembra che si defletterebbe dalla logica del Vangelo quando l’attività pastorale fosse considerata come antagonista, di senso dunque uguale e contrario, a quella politico-sociale. Quando ciò accade, la coscienza cristiana non è sincronizzata al volere di Gesù, perché il compito della comunità cristiana nel mondo non è secondo le indicazioni del  Maestro: essere lievito e fermento nella storia e della storia. Al contrario, essa dimostra di ambire ad essere struttura sempre più vistosa e sempre più imponente, oltre che potente, in maniera se non concorrenziale, almeno paritaria con le altre strutture di potere. Anche qui, in caso di conflitti, l’esito non può essere che uno: l’inimicamento, lo scontro, o al limite il rigetto, insomma qualcosa di simile al non expedit.

Ma allora che ne è della profezia? Cioè del diritto-dovere di manifestare il proprio dissenso anche da parte dei cristiani, soprattutto da parte loro, più che da parte delle istituzioni che li rappresentano? Non c’è più posto per essa? Al contrario! Non solo c’è posto, ma ci deve essere persino più informazione e formazione a che essa abbia luogo nella società quanto nella stessa Chiesa. La profezia però non è esercizio di potere. Contro le parole, le minacce e le sanzioni del potere, la profezia è il semplice e nudo potere della Parola, quella che nulla teme perché a nulla ambisce. Quella che non ha nulla da perdere perché non possiede nulla. Possiede solo o meglio è posseduta da un’irrinunciabile e indomabile volontà di vita e di amore per gli altri. Anche a costo di rimetterci di persona.

Un’ultima considerazione riguarda il popolo o, come sempre e di proposito ho detto, quella parte di popolo che è stata protagonista dei fatti narrati e dei quali discutiamo. Quel popolo di cui il libro recensisce anche canti e detti sapienziali.  

Proprio coloro che costituiscono il popolo possono essere talvolta manipolati, disinformati, sviati e deviati. In ogni caso devono però essere educati da tutti, dalla scuola non meno che dalla Chiesa a saper discernere criticamente, a ragionare con la propria testa e non con quella degli altri, nemmeno con quella dei propugnatori di mode e modelli, a partire dai mezzi mediatici, che oggi come non mai addormentano le coscienze e producono falsi bisogni e incapacità di giudizio.

Colpisce che negli eventi che ci riguardano strati non marginali del popolo, e in esso in maniera preponderante le donne, si siano pronunciati e siano arrivati a determinazioni ed azioni concrete. Io mi auguro che pur attraverso forme nonviolente e serenamente vagliate, almeno una parte del nostro popolo tortorese, a partire da ciò che resta del centro storico, si esprima e proponga, propositivamente e non in forma di sterile protesta, quanto giovi a scongiurare la sua “minaccia di estinzione”, come è stata chiamata. L’iniziativa di oggi possa essere un segno davvero innovativo perché nel recupero della nostra memoria collettiva, possiamo contribuire a progettare il nostro presente e il nostro futuro.