CUGNO / Scarto di legno / ispessito dai colpi
sonori / delle robuste mazze del tempo. / Forma insignificante / compressa
entro flussi tremendi / di energia gravitazionale. / Non si chiude la
storia!
un archivio degli scritti dei
pretioperai italiani
Un economista come
Galbraith scriveva che “la natura della povertà di massa” si deve cercare
nell'adattamento dei poveri allo loro situazione. In meccanismi dunque più
di psicologia sociale che di iniqua ripartizione economica. La prova è -
udite, udite! - il fatto che i poveri, quando sono in terra straniera,
sono non solo laboriosi e produttivi, ma di gran lunga più diligenti e
creativi degli autoctoni. Tutto ciò suona pur sempre come un inno
all'emigrazione, salutata come una benedizione: “Nùtriti onestamente, non
restare nella tua terra!”; ma è una benedizione, osserviamo umilmente, che
ha fatto più che la fortuna degli immigrati, quella dei paesi “ospitanti”.
Questi hanno avuto mano d'opera a buon prezzo, centinaia e centinaia di
migliaia di operai per i quali non avevano speso un soldo, mentre la
madrepatria se li vedeva sottratti e si immiseriva ulteriormente, avendo
dovuto pagare, dalla loro nascita fino al momento dell'espatrio, quanto
occorre per le pur minimali strutture ed infrastrutture indispensabili al
vivere associato (scuola, sanità ecc.).
Dal
pregiudizio al giudizio sulla realtà nella prospettiva di Dio
Guardando la realtà
con gli occhi di Dio, occorre rovesciare i nostri criteri di giudizio e di
scelta. Accettando la logica (illogica) delle Beatitudini evangeliche,
dobbiamo tutti imparare che se il Regno è primariamente per i poveri e gli
oppressi, per quelli che piangono ed hanno fame, Dio sta oggi al Sud del
mondo. La battuta che da noi si sente su Cristo che si è fermato ad Eboli
(emblema di arretratezza e di miseria) perché proveniva dal Sud e si è
fermato tra i suoi poveri, contiene una sua verità sulla quale sarà bene
che tutti meditiamo. Rimane purtroppo attuale nella Chiesa di oggi il
richiamo di Paolo ai Corinzi sulla inconciliabilità tra mancanza di
condivisione dei beni ed eucaristia (1 Cor 11, l8ss; cfr anche 2 Cor 8,14
ed Atti 2,44-45; 4,32). La divisione tra Nord e Sud percorre oggi
trasversalmente l'intero popolo di Dio e si accentua, per quel che ne
sappiamo e vediamo sotto i nostri occhi, ogni giorno di più. Cresce a
livello mondiale, così come cresce a livello nazionale e permea le stesse
aree del Sud. Tutto ciò ci induce a dire che non si tratta solo di un
divario, che i "responsabili" dovranno colmare, prima o dopo. Al punto in
cui siamo, considerando gli effetti nefasti di una situazione che è
alimentata da un effettiva mancanza di solidarietà, lo squilibrio Nord-Sud
appare per i credenti come peccato e struttura di peccato. E' frutto di un
dinamismo che gerarchizza la distribuzione dei beni (siano essi di natura
economica, che di natura culturale e per giunta di natura religiosa) in
base a quei criteri che non corrispondono alla logica di Dio, né a quella
evangelica. Se la terra è di Dio (Lev 25,23; SaI 24,1; Ger 2,7; Es 3,5),
l'uomo deve amministrarla con fedeltà e giustizia, rispettando le consegne
del Creatore e prendendo a modello di solidarietà Colui che si è fatto
solidale con noi in tutto, non disdegnando di chiamarci fratelli (Eb 2,11;
2,17). Siamo convinti che lo squilibrio Nord-Sud è diventato ormai una
struttura dove più chiaramente che altrove, si manifesta la mancanza di
solidarietà e di rispetto dei diritti umani, della natura e della vita
stessa, perciò effetto ed espressione di un peccato del quale dobbiamo
tutti convertirci. Ciò sarà possibile nella misura in cui la nostra
omiletica, la nostra pastorale e il nostro impegno, a qualunque livello,
saranno indirizzati a combattere e vincere un tale stato peccaminoso e a
realizzare segni nuovi di aggregazione e di collaborazione, scegliendo, se
sarà necessario, sempre i più a Sud dello stesso Sud.
Rieccoci ad un tema sempre rimosso e sempre
ricorrente nella nostra coscienza collettiva.
E' un tema che investe i più svariati campi del vivere sociale: il
politico-economico, quello storico-geografico, quello nazionale e, non
ultimo, quello ecclesiale. Un tema che suscita talora reazioni convulse,
se non grossolane e offensive, come dimostrano le varie leghe a stampo
geografico razzista che sono nate al Nord e che ora hanno, per reazione,
prodotto qualche lega uguale e contraria anche nel Sud d'italia. Non sono
offensive e inqualificabili solamente le frasi che si leggono, questa
volta, ahimé, in maniera prevalente, al Nord - soprattutto sui mari delle
città piemontesi, lombarde e venete - ma è oscena la stessa idea di
costruire raggruppamenti, movimenti d'opinione, partiti politici contro
una parte della popolazione, sia essa del Nord che del Sud, contro la
gente d'oltralpe o contro i terzomondiali.
Non tutti arrivano a questi livelli. Anzi la maggior parte condanna simili
eccessi, come condanna i facinorosi e i violenti dei nostri stadi
nazionali. Il mondo - viva Dio! - è pieno di persone assennate, che sanno
condannare gli eccessi. Eppure - strano a dirsi - sono proprio queste
persone equilibrate e serene che giustificano con i loro argomenti l'immodificabilità
di situazioni, di visioni, di un mondo che si vuole e si deve ritenere
immutabile, allo scopo di assicurare l'immutabilità del proprio benessere
e di quello del proprio gruppo, della propria area storico-culturale e
geografico-ambientale.
Ma contro la virulenza del razzismo può bastare il discorrere salottiero
delle persone perbene? Certamente no. Di fatto gli argomenti tradiscono
una visione statica e rassegnata della vita. Le conclusioni non lasciano
adito a dubbio e soprattutto non aprono alcuno spiraglio. Suonano così:
“non ci si può far nulla!”; “tutto il mondo è stato sempre diviso tra
ricchi e poveri!”; “il sud di oggi è la perpetuazione dell'eterna
divisione tra ricchi e poveri”; i più pii arrivano a dire: “l'aveva
affermato anche Gesù nel Vangelo: i poveri li avrete sempre con voi”. Il
Sud, o i tanti Sud - si afferma in sostanza - fanno parte della natura
delle cose. Cose immodificabili, contro le quali è pura velleità anche il
solo voler lottare.
Quando non ci si rassegna al fatalismo, il problema del Sud diventa per
altri - spesso in maniera del tutto strumentale - solo una disfunzione
storicamente pesante, ma tutto sommato momentanea, di uno sviluppo
economico, che si ritiene prima o dopo arriverà a beneficiare anche il
Sud. Se nei Sud del mondo non c'è benessere, ciò è da imputare - si pensa
- a fattori climatici, ambientali, temperamentali. Il razzismo,
espressamente rifiutato per la sua grossolanità, fa di nuovo capolino,
anche se molto sottilmente. La gente del Sud non sa lavorare - si afferma
- perché non vuole lavorare. E' indolente per natura, manca di grandi
motivazioni economiche e sociali, manca di ambizioni.
Il pregiudizio si ammanta allora di rispettabilità scientifica. Un
economista come Galbraith scriveva dieci anni fa che “la natura della
povertà di massa” si deve cercare nell'adattamento dei poveri allo loro
situazione. In meccanismi dunque più di psicologia sociale che di iniqua
ripartizione economica. La prova è - udite, udite! - il fatto che i
poveri, quando sono in terra straniera, sono non solo laboriosi e
produttivi, ma di gran lunga più diligenti e creativi degli autoctoni.
Tutto ciò suona pur sempre come un inno all'emigrazione, salutata come una
benedizione: “Nùtriti onestamente, non restare nella tua terra!”; ma è una
benedizione, osserviamo umilmente, che ha fatto più che la fortuna degli
immigrati, quella dei paesi “ospitanti”. Questi hanno avuto mano d'opera a
buon prezzo, centinaia e centinaia di migliaia di operai per i quali non
avevano speso un soldo, mentre la madrepatria se li vedeva sottratti e si
immiseriva ulteriormente, avendo dovuto pagare, dalla loro nascita fino al
momento dell'espatrio, quanto occorre per le pur minimali strutture ed
infrastrutture indispensabili al vivere associato (scuola, sanità ecc.).
Si resta veramente sorpresi a non leggere simili considerazioni in
professori di economia, le argomentazioni dei quali spaziano invece in
tutt'altro orizzonte. E' quello, in ultima analisi, della pregiudiziale di
fondo sulla “natura” dei poveri, considerata, se non di seconda serie,
almeno immatura, e quindi del pregiudizio sui Sud del mondo, e sul
carattere volontario della povertà e del disagio.
E' responsabile la
religione?
Galbraith non si
fermava qui. Riprendendo e revisionando argomentazioni care ad un altro
pensatore interessante, anch'egli del Nord, M. Weber, riproponeva la
grande responsabilità rivestita dalle “religioni mondiali” nel processo di
adattamento alla povertà, provocando una sua perpetuazione. Le religioni,
in primo luogo quella cristiana, hanno demotivato gli uomini e hanno
idealizzato la povertà rendendola strumento, anzi, condizione di salvezza
eterna. “I poveri vanno in paradiso, passando attraverso la cruna
dell'ago, mentre i ricchi ne restano fuori con tutti i loro cammelli”.
Quest'idea, sentenziano oggi i nuovi sacerdoti dell'imprenditorialità
vista fonte di felicità per tutti, è all'origine dell'impoverimento di
massa e dell'insuperabile divisione del mondo in ricchi e poveri, in Nord
e Sud.
Vengono ad essere qui chiamati in causa il Vangelo, la spiritualità
cristiana e la stessa interpretazione teologica della povertà. La cosa
singolare - sia notato solo di sfuggita - è che quando i sociologi e gli
economisti tirano in ballo la religione non sono convincenti già per il
semplice fatto che sono del tutto in contraddizione tra loro. Mentre per
alcuni proprio la religione, come quella cristiano-calvinista per Weber,
costituisce, a causa del suo affIato trascendente e delle sue indomabili
speranze, la molla dell'imprenditorialità e dell'accumulo del capitale,
per altri, dell'indirizzo di Galbraith, è fonte invece di assuefazione
alla miseria, senza che ci sia una via di scampo.
E' ancora più singolare notare, in questo caso, che sono gli stessi
economisti a preoccuparsi del valore "sovversivo" della religione, fino al
punto di elaborare strategie di contenimento, epurazione e liquidazione
della stessa religione cristiana, quando questa viene storicamente a
caratterizzarsi (vedi Terzo Mondo) come teologia e prassi di liberazione.
Non è leggenda che un gruppo di studiosi e di fidati consiglieri del
presidente degli Stati Uniti R. Reagan, elaborava, circa un decennio fa,
un preciso piano di eliminazione della teologia della liberazione per il
suo potenziale destabilizzante ed eversivo.
Più triste è il fatto che al piano del Presidente si accompagnavano
strategie simili, in circoli (per fortuna ristretti e ben identificabili)
di natura ecclesiale, ma con ampie simpatie per ambiti imprenditoriali e
non di rado militari. Il resto è storia dei nostri giorni.
Dinnanzi ad una situazione siffatta, che aggroviglia e semplifica nello
stesso tempo il problema del crescente divario tra Nord e Sud, ci
chiediamo quale sia l'atteggiamento cristianamente coerente a fronte dei
pregiudizi di cui sopra e in vista di una scelta di campo ben precisa, ma
che diventa, ogni giorno di più, improrogabile.
Dal pregiudizio al giudizio sulla realtà
nella prospettiva di Dio
Ci dobbiamo limitare solo ad alcune indicazioni generali, ma non per
questo generiche. La prima riguarda la penetrazione e l'estensione dei
pregiudizi e dei luoghi comuni sul Nord-Sud anche tra i cristiani. Né
giova a risolvere il problema una reazione di tipo
pietistico-assistenziale. Se è vero che non mancano documenti ecclesiali
anche molto impegnati sulla problematica, alla pastorale dei documenti
deve però corrispondere una pastorale di una prassi che sia comunicativa e
solidale. Giacché il problema non si risolve in modo pragmatistico,
occorre sempre fondare, giustificare e motivare una simile prassi in un
contesto
teologico complessivo, ma anche chiaro ed univoco. Si tratta di un
contesto che metta l'agire solidale e preferenziale verso i "più poveri"
(ad esempio della stessa gente del Sud nei confronti di quanti sono più
svantaggiati proprio al Sud) in rapporto diretto ed immediato con la fede.
Non c'é fede senza l'amore; ma non
c'è amore senza effettiva solidarietà e reale condivisione.
Guardando la realtà con gli occhi di Dio, occorre rovesciare i nostri
criteri di giudizio e di scelta. Accettando la logica (illogica) delle
Beatitudini evangeliche, dobbiamo tutti imparare che se il Regno è
primariamente per i poveri e gli oppressi, per quelli che piangono ed
hanno fame, Dio sta oggi al Sud del mondo. La battuta che da noi si sente
su Cristo che si è fermato ad Eboli (emblema di arretratezza e di miseria)
perché proveniva dal Sud e si è fermato tra i suoi poveri, contiene una
sua verità sulla quale sarà bene che tutti meditiamo. Rimane purtroppo
attuale nella Chiesa di oggi il richiamo di Paolo ai Corinzi sulla
inconciliabilità tra mancanza di condivisione dei beni ed eucaristia (1
Cor 11, l8ss; cfr anche 2 Cor 8,14 ed Atti 2,44-45; 4,32).
La divisione tra Nord e Sud percorre oggi trasversalmente l'intero popolo
di Dio e si accentua, per quel che ne sappiamo e vediamo sotto i nostri
occhi, ogni giorno di più. Cresce a livello mondiale, così come cresce a
livello nazionale e permea le stesse aree del Sud. Tutto ciò ci induce a
dire che non si tratta solo di un divario, che i "responsabili" dovranno
colmare, prima o dopo. Al punto in cui siamo, considerando gli effetti
nefasti di una situazione che è alimentata da un effettiva mancanza di
solidarietà, lo squilibrio Nord-Sud appare per i credenti come peccato e
struttura di peccato. E' frutto di un dinamismo che gerarchizza la
distribuzione dei beni (siano essi di natura economica, che di natura
culturale e per giunta di natura religiosa) in base a quei criteri che non
corrispondono alla logica di Dio, né a quella evangelica. Se la terra è di
Dio (Lev 25,23; SaI 24,1; Ger 2,7; Es 3,5), l'uomo deve amministrarla con
fedeltà e giustizia, rispettando le consegne del Creatore e prendendo a
modello di solidarietà Colui che si è fatto solidale con noi in tutto, non
disdegnando di chiamarci fratelli (Eb 2,11; 2,17).
Siamo convinti che lo squilibrio Nord-Sud è diventato ormai una struttura
dove più chiaramente che altrove, si manifesta la mancanza di solidarietà
e di rispetto dei diritti umani, della natura e della vita stessa, perciò
effetto ed espressione di un peccato del quale dobbiamo tutti convertirci.
Ciò sarà possibile nella misura in cui la nostra omiletica, la nostra
pastorale e il nostro impegno, a qualunque livello, saranno indirizzati a
combattere e vincere un tale stato peccaminoso e a realizzare segni nuovi
di aggregazione e di collaborazione, scegliendo, se sarà necessario,
sempre i più a Sud dello stesso Sud.