GIUSEPPE LIGUORI
“I problemi del Rwanda hanno come origine la
brama di potere” “In tutta la regione è esploso lo stesso
morbo, “Poteri stranieri, con la collaborazione di
alcuni fratelli congolesi,
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Struttura
del libro (cliccare sulle singole parti per poterle leggere) BREVE
STORIA DEL RWANDA FINO AL 1994 CONGO:
UN PAESE RICCO ABITATO DA GENTE POVERA |
PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE
Il mio libro, pubblicato nel 2003 dal caro amico don Giovanni Mazzillo nel sito www.puntopace.net, viene ora inserito, grazie alla gentilezza dei missionari comboniani di Padova, nel sito www.giovaniemissione.it. Si tratta di 10 anni di storia tormentata in una delle aree più “calde” del globo, la regione africana dei Grandi Laghi. In questa prefazione alla seconda edizione, quasi identica alla precedente, mi limito a sottolineare alcuni eventi significativi, avvenuti tra il maggio 2003 ed il marzo 2004.
In Uganda, dopo che il partito unico, al potere dal 1986, ha manifestato chiaramente l’intenzione di cambiare la Costituzione, abolendo il limite di due mandati presidenziali, il cardinale Emmanuel Wamala, arcivescovo di Kampala, dichiara pubblicamente che un eventuale terzo mandato condurrà l’Uganda alla dittatura. Dopo questa dichiarazione, il cardinale viene più volte attaccato da esponenti della maggioranza presidenziale ed invitato ad occuparsi solo della salvezza delle anime. In Karamoja (nord-est dell’Uganda), il 14 agosto 2003 padre Mario Mantovani (84 anni) e fratel Godfrey Kiryowa (29 anni), missionari comboniani, sono barbaramente uccisi, durante o subito dopo una razzia di bestiame. Padre Mario, da 50 anni in Uganda, aveva forse riconosciuto i banditi che, a volto scoperto, avevano fermato la sua automobile, guidata da fratel Godfrey, per derubarlo.
Il 25 agosto il generale Paul Kagame, al potere dal 1994, viene eletto presidente del Rwanda col 95% dei suffragi; perfino a Cyangugu, roccaforte di Faustin Twagiramungu, ex primo ministro e unico candidato credibile dell’opposizione, il dittatore rwandese ottiene oltre il 90% dei voti. È evidente che le elezioni sono state truccate. Gli osservatori dell’Unione Europea parlano molto diplomaticamente di “elezioni non del tutto libere e corrette”. Durante la campagna elettorale sono stati numerosissimi i casi d’intimidazione nei confronti dell’opposizione. Il 23 agosto, a poche ore dalle elezioni, il nipote di Twagiramungu è stato arrestato e torturato. In televisione è costretto a dire che suo zio è un pazzo.
Il 5 novembre l’onorevole Luana Zanella, esponente di spicco dei Verdi, presenta alla Camera dei Deputati un’interrogazione parlamentare, per sapere dal ministro degli esteri “se non ritenga che le evidenti e documentate violazioni dei diritti umani nel paese africano impongano al nostro Governo una presa di posizione forte nei confronti del Regime politico ugandese, che vada nella direzione di sospendere gli aiuti e esercitare pressioni per il rispetto dei diritti umani, della libertà d’espressione e informazione, della libertà politica”.
Il sottosegretario Onu per gli affari umanitari Jan Egeland, in Uganda nel mese di novembre, così si esprime ai microfoni della BBC: “non c’è in nessun’altra parte del mondo una situazione d’emergenza simile a quella dell’Uganda; l’attenzione internazionale è però minima”. Nel 2003 i ribelli dell’Esercito di Resistenza del signore (LRA) hanno ucciso almeno 3.000 civili inermi e costretto oltre un milione di persone a rifugiarsi in campi di concentramento allestiti dal governo, nei quali manca il cibo e l’acqua potabile, le condizioni igieniche sono pessime e i soldati governativi non solo non proteggono la popolazione quando i ribelli attaccano i campi, ma spesso eseguono esecuzioni extra-giudiziali e di frequente picchiano gli uomini e violentano le donne, come è stato ampiamente documentato da un rapporto di Amnesty International del marzo 1999. Il governo non ha mai preso seri provvedimenti per far cessare queste gravi violazioni dei diritti umani.
Il 29 dicembre il nunzio apostolico in Burundi, mons. Michael Courtney, viene ucciso a colpi d’arma da fuoco da uno sconosciuto. È la prima volta che un ambasciatore del Papa viene ucciso in Africa. Nigrizia, la rivista dei missionari comboniani, nel numero di marzo 2004 chiede alla Commissione vaticana Giustizia e Pace di formare una commissione d’inchiesta, che possa indagare in modo indipendente sui mandanti e sugli esecutori materiali dell’omicidio.
Il 15 febbraio 2004, il giornale governativo New Vision attacca pesantemente padre Carlos Rodriguez Soto, missionario spagnolo da molti anni in Uganda, falsamente accusato d’essere un bugiardo, un soldato di ventura ed un collaboratore dei ribelli.
Sabato 21 febbraio avviene il massacro più grave degli ultimi 10 anni. I ribelli attaccano il campo di Barlonyo, nel distretto di Lira (nord Uganda); i morti sono oltre 200, alcuni dei quali bruciati vivi. I soldati governativi tentano di seppellire in fretta il maggior numero possibile di cadaveri, per diminuire il numero ufficiale di morti, in modo da non allarmare la comunità internazionale. Il presidente-dittatore Museveni, infatti, dichiara che i morti sono solo un’ottantina. Questo gioco sporco non riesce, perché un parlamentare ugandese conta personalmente oltre 190 cadaveri e comunica la notizia ai giornalisti stranieri presenti a Lira; anche un sacerdote cattolico conta i morti e conferma la testimonianza del parlamentare. Il Parlamento approva all’unanimità una mozione in cui si dichiara il Nord Uganda zona di disastro umanitario, ma il governo respinge la mozione, dichiarando che solo il Presidente della Repubblica può dichiarare lo stato d’emergenza in una regione del Paese.
Pensando all’Africa di oggi, mi vengono in mente le parole del profeta Geremia: “se esco in aperta campagna, ecco i trafitti dalla spada; se entro in città, ecco i colpiti dalla fame” (Ger 14,18). Nonostante tutto, però, come direbbe il grande André Sibomana, sacerdote e giornalista rwandese recentemente scomparso, “gardons espoir pour l’Afrique”, conserviamo la speranza per l’Africa.
Kampala, marzo 2004 Giuseppe Liguori (MFD)
BREVE
STORIA DEL RWANDA FINO AL 1994
Il
Rwanda è grande più o meno quanto la nostra Sicilia, ma è densamente
popolato; attualmente, dopo i massacri e le migrazioni bibliche di milioni di
persone, nessuno sa quanti siano esattamente gli abitanti del “paese dalle
mille colline”, ma stime attendibili parlano di sette milioni.
Le
etnie (forse sarebbe più corretto parlare di “comunità”) presenti sono
tre: i bahutu, i batutsi e i batwa (in kinyarwanda il prefisso “ba” indica
il plurale). I bahutu sono, insieme ai batwa, i primi abitanti del Rwanda ed
erano in origine degli agricoltori. I batutsi, arrivati in Rwanda verso il
XIV-XV secolo, erano all’epoca allevatori di bestiame. I batwa sono dei pigmei
e rappresentano appena l’1% della popolazione.
Per
lunghi secoli queste tre comunità hanno vissuto in pace, ad eccezione di brevi
periodi di guerra; esse condividevano la stessa lingua e la stessa cultura e
credevano in un unico Dio, Imana. Il Rwanda era una monarchia ed il re (Mwami)
era sempre un mututsi (in kinyarwanda il prefisso “mu” indica il singolare).
La ricchezza ed il potere dipendevano dal numero di capi di bestiame posseduto;
la classe dirigente era costituita prevalentemente da batutsi, ma anche i bahutu,
se ricchi, potevano essere nominati capi; inoltre, anche un muhutu povero
poteva, col suo lavoro, arricchirsi e diventare potente.
Il
Rwanda, paese interno e difficilmente raggiungibile quando non esistevano gli
aerei, per lunghi secoli è rimasto isolato dal resto del mondo e, soprattutto,
non ha conosciuto, come altri paesi africani, la tratta degli schiavi, orrendo
crimine contro l’umanità[3].
Solo verso la fine del 1800 i primi colonizzatori tedeschi arrivarono nel paese
ed iniziarono un sistema di governo indiretto, lasciando al re alcune importanti
prerogative. Dopo la prima guerra mondiale i tedeschi persero le loro colonie
africane ed il Rwanda fu affidato dalla Società delle nazioni al Belgio, come
territorio sotto tutela. Furono proprio i belgi a creare il mito della
superiorità dei batutsi rispetto ai bahutu. Si disse che i primi erano simili
agli europei, alti, belli, intelligenti, col naso piccolo e stretto; i secondi,
invece, erano dei bantu, bassi, brutti, stupidi, col naso camuso. Un altro grave
errore dei belgi fu quello d’introdurre la carta d’identità con la menzione
dell’etnia d’appartenenza.
Col
passare degli anni, i batutsi si convinsero sempre più della loro superiorità
ed iniziarono ad escludere sempre di più i bahutu dalla gestione del potere.
Negli anni 50 in tutta l’Africa iniziava la stagione delle indipendenze ed
anche in Rwanda il fermento era grande. Alcuni intellettuali bahutu iniziarono a
reclamare il potere ed in pochi anni, dal 1959 al 1962, un muhutu, Grégoire
Kaybanda, divenne prima capo del governo e poi presidente della Repubblica.
Come
spesso accade nella storia, gli oppressi di ieri diventarono gli oppressori di
oggi; migliaia di batutsi furono massacrati e migliaia di loro si rifugiarono
nei paesi limitrofi (Uganda, Burundi e Zaire). Le cose peggiorarono
ulteriormente quando, nel 1973, con un colpo di stato il generale Juvénal
Habyarimana prese il potere; ai batutsi erano ormai riservati solo il 9% dei
posti di lavoro e di quelli nelle scuole, nonostante essi rappresentassero il
14% della popolazione. Il potere si concentrò nelle mani dei bahutu del Nord,
mentre quelli del Sud vennero spesso perseguitati. Ancora una volta ci furono
dei pogrom organizzati contro i batutsi i quali, dopo essere fuggiti
all’estero, iniziarono ad armarsi e ad organizzarsi militarmente. Tra i
profughi di quegli anni, ancora bambino, c’era Paul Kagame, futuro
presidente-dittatore del Rwanda.
I
batutsi meglio organizzati erano quelli rifugiati in Uganda; essi, dopo aver
partecipato alla guerra di liberazione nell’esercito di Yoweri Kaguta Museveni,
attuale dittatore dell’Uganda, crearono il Fronte Patriottico Rwandese (FPR)
e, nell’ottobre 1990, invasero da Nord il Rwanda. Habyarimana chiese ed
ottenne l’aiuto della Francia e riuscì ad arrestare l’avanzata del Fpr.
Nel
settembre 1990, dunque appena un mese prima dell’attacco del FPR, Giovanni
Paolo II compì una visita apostolica in Rwanda e riuscì a convincere
l’arcivescovo di Kigali a dimettersi dal comitato centrale del partito unico
al potere.
Intanto,
dopo la caduta del muro di Berlino, un vento di libertà e di democrazia
soffiava su tutta l’Africa. Il presidente francese Mitterand, nel vertice
franco-africano del giugno 1990 a La Baule, aveva chiaramente legato alla
democratizzazione e al multipartitismo la concessione di aiuti da parte del
governo francese. Anche il Rwanda doveva adeguarsi ed Habyarimana legalizzò i
partiti politici (fino ad allora c’era un unico partito, quello del
presidente, il MRND, Movimento rivoluzionario nazionale per lo sviluppo).
Tra
i nuovi partiti, uno dei più importanti era il MDR (Movimento Democratico
Repubblicano), composto in prevalenza da bahutu moderati, che aveva tra i suoi
esponenti di spicco Faustin Twagiramungu, la signora Agathe Uwilingimana e
Dismas Nsengiyaremye. Proprio quest’ultimo il 3 aprile 1993 venne nominato da
Habyarimana primo ministro di un governo di coalizione tra il MDR e l’ex
partito unico, che intanto aveva assunto il nome di MRNDD (Movimento
rivoluzionario per la democrazia e lo sviluppo). Nacque però anche un partito
di estremisti bahutu, la CDR (Coalizione per la Difesa della Repubblica),
contraria ad ogni accordo non solo con il FPR, ma anche con i bahutu moderati.
Dopo l’attacco del Fpr, alcuni estremisti della cricca presidenziale,
detta “akazu”, creano delle milizie, gli interahamwe, che saranno poi tra i
protagonisti del genocidio del 1994. Essi finanziano anche una radio, la RTLM
(Radio-televisione libera delle mille colline) e il giornale Kangura, allo scopo
di seminare odio verso i batutsi. Nasce così “l’hutu power”,
un’ideologia razzista, simile al nazismo tedesco, che ha un suo decalogo (“i
dieci comandamenti dei bahutu”) e parla apertamente della distruzione totale
dei batutsi, che ai loro occhi non sono più persone, ma scarafaggi da
schiacciare. Ogni mututsi è un nemico, come è nemico ogni muhutu che abbia
pietà dei batutsi, come recita uno dei “dieci comandamenti”. Non basta
uccidere gli adulti, ma è necessario massacrare anche i bambini, affinché non
possano fuggire per poi tornare a vendicarsi.
Nell’agosto 1993 Habyarimana firma con il FPR gli accordi di pace di
Arusha (Tanzania), che prevedono la formazione di un governo di coalizione,
guidato da un esponente dell'opposizione, nel quale sono presenti anche
esponenti del FPR. Habyarimana conserva la presidenza della Repubblica fino a
nuove elezioni, ma si impegna ad una riforma dell’esercito, finora composto
esclusivamente da bahutu. Agathe Uwilingimana, esponente del MDR, era intanto
stata nominata primo ministro il 17 luglio. Le Nazioni Unite inviano 2.800
caschi blu, con l’incarico di vigilare sul rispetto degli accordi di pace e di
proteggere i leader dell’opposizione.
Gli uomini dell’akazu, però, non accettano questa svolta moderata di
Habyarimana; la divisione del potere, infatti, li costringerebbe a rinunciare a
molti privilegi. Iniziano così a circolare le liste dei nemici da abbattere e
s’intensifica la propaganda anti-tutsi.
Nei primi mesi del 1994 alcune organizzazioni per la difesa dei diritti
umani pubblicano inquietanti rapporti, in cui si chiede alla comunità
internazionale d’intervenire in Rwanda prima che sia troppo tardi. Il
comandante dei caschi blu, il canadese Romeo Dallaire, chiede l’aumento del
suo contingente, ma il consiglio di sicurezza dell’Onu, al contrario, decide
di ridurlo a poco più di 250 uomini. Il governo francese, più volte
sollecitato ad intervenire, fa finta di nulla. La Chiesa cattolica intanto sta
per celebrare in Italia il Sinodo dei Vescovi sull’Africa ed anche alcuni
pastori rwandesi si preparano a partire per Roma.
Il 6 aprile il presidente Habyarimana si reca in Tanzania insieme al suo
omologo burundese Ntaryamira. Al ritorno, verso le ore 20,30 l’aereo
presidenziale è abbattuto da ignoti nei pressi dell’aeroporto di Kigali.
Questo tragico evento segna l’inizio del genocidio. Gli squadroni della morte
sanno di avere ormai mano libera e l’indomani iniziano i massacri dei batutsi
e dei bahutu moderati. Tra le prime a morire, insieme alla sua scorta formata da
dieci caschi blu belgi, è il primo ministro Uwilingimana. Gli interahamwe e la
guardia presidenziale erigono dappertutto dei posti di blocco; chi, sulla sua
carta d’identità, ha la scritta “etnia: tutsi” è ucciso all’istante,
ma non hanno scampo nemmeno i bahutu del Sud o quelli che somigliano fisicamente
ai batutsi. La comunità internazionale compie una vera e propria omissione di
soccorso e si rifiuta persino di usare la parola genocidio. Solo il Papa, primo
fra tutti, già il 15 maggio all’Angelus parla di genocidio: “Si tratta in
modo puro e semplice di un genocidio in cui sono purtroppo responsabili anche
dei cattolici”.[4]
Il FPR, intanto, attacca in modo massiccio gli uomini delle FAR (Forze
Armate Rwandesi) i quali, ormai privi del sostegno francese, iniziano a
ripiegare verso lo Zaire. Il consiglio di sicurezza dell’Onu decide, con la
risoluzione 918, l’embargo sulle armi al Rwanda; dopo lunghe discussioni, il
22 giugno autorizza “l’Opération turquoise”, comandata dai francesi, che
si installano nel sud-ovest del Rwanda. Sugli obiettivi di questa missione ci
sono tuttora forti dubbi: era una missione umanitaria o aveva degli scopo
inconfessabili, come per esempio la distruzione dei campi di marijuana nella
foresta di Nyungwe di proprietà, secondo Krop, del figlio del presidente
francese ?[5]
È indubbio che Jean-Christophe Mitterand non sia uno stinco di santo, come
testimonia il suo arresto per una vicenda relativa ad un traffico illegale di
armi con l’Angola e il Congo, avvenuto in Francia il 21 dicembre 2000.
Nell’estate 1994 i soldati francesi sono sostituiti da 5.586 caschi blu
dell’Onu.
Il 4 luglio il FPR conquista la capitale Kigali ed ha il controllo delle
maggiori città del paese. In tre mesi di lotta, come testimonia il rapporto
Gersony, anche il Fronte ha commesso molte violazioni dei diritti umani, tra cui
l’assassinio, avvenuto a Kabgayi, di tre vescovi: Thaddée Nsengiyumva, Joseph
Ruzindana e Vincent Nsengiyumva. Quest’ultimo, arcivescovo di Kigali, non era
certo esente da colpe, in quanto membro fino al 1990 del comitato centrale del
MRND; questo, però, non giustifica in alcun modo la sua uccisione
extragiudiziale, che rimane un crimine orrendo e disumano. Nessun uomo può
essere condannato a morte, anche se colpevole dei più atroci delitti e nessuno
può essere condannato senza aver prima subito un regolare processo; ma queste
norme, che sono basilari nel diritto, non sono state rispettate dagli uomini del
FPR.
Un
dovere d’obiettività m’impone però di precisare che ancora più grave è
l’operato della guardia presidenziale e degli interhamwe, che hanno
programmato ed effettuato un genocidio in cui hanno perso la vita 800.000
uomini, donne, vecchi e bambini innocenti. È dovere di chiunque ami la
giustizia e la verità condannare i crimini sempre e dovunque, sia quelli
effettuti dai bahutu che quelli commessi dai batutsi. Dopo aver detto con forza
che i batutsi hanno subito un genocidio, bisogna ribadire con altrettanta forza
che questo non autorizza il governo rwandese, dominato dal FPR, ad uccidere, in
modo extragiudiziale o con processi farsa, migliaia di bahutu, né a detenere
illegalmente oltre 100.000 persone. Non c’è dubbio che Habyarimana fosse un
dittatore e sia stato uno dei principali responsabili del genocidio del 1994;
voglio però dire che anche Paul Kagame è un dittatore ed è uno dei maggiori
responsabili dei massacri di bahutu avvenuti in Rwanda nel 1994 e in Congo a
partire dall’autunno 1996. Perché la comunità internazionale, colpevolmente
inerte nel 1994, non prende alcun tipo di sanzioni nei confronti del governo del
Rwanda ? Cui prodest, a chi giova un governo che calpesta quotidianamente i
diritti umani ? Giova sicuramente agli Stati Uniti, le cui multinazionali
hanno così mano libera per lo sfruttamento delle immense risorse minerarie del
Congo.
Nel luglio 1994, dunque, il Rwanda ha delle nuove istituzioni. Il nuovo
presidente della Repubblica è Pasteur Bizimungu, muhutu moderato, esponente di
spicco del FPR. Vice presidente e ministro della difesa è Paul Kagame, mututsi,
capo militare e politico del FPR e vero uomo forte di Kigali. Primo ministro è
Faustin Twagiramungu, muhutu, esponente del MDR. I posti chiave sono nelle mani
del Fronte e la presunta “multietnicità” del governo è solo apparente,
come gli eventi successivi dimostreranno in modo inequivocabile. Si parla di un
periodo di transizione di cinque anni, alla fine del quale saranno indette
elezioni libere e democratiche. Dopo oltre otto anni, il popolo del Rwanda
attende ancora di sapere quando potrà eleggere i suoi governanti.
Il 19 luglio 1994 Pasteur Bizimungu è ufficilamente designato presidente
della Repubblica; ma il nuovo governo è davvero multietnico e multipartitico ?
“A prima vista il nuovo esecutivo appare più “ecumenico” del precedente:
anche stavolta si tratta di una coalizione di 5 partiti, ma mentre l’équipe
di Sindikubwabo e Kabanda* era monoliticamente hutu, quella di Twagiramungu è
mista: 12 hutu e 9 tutsi. La parte del leone la fa certamente l’FPR, cui vanno
la presidenza e la vicepresidenza della repubblica e 8 ministeri (in base agli
accordi di Arusha gliene sarebbero spettati solo 5). Segue, molto distanziato,
l’MDR (Movimento democratico nazionale*, radicato nel sud del paese) cui
toccano il premier e 3 ministri; 3 ministri ciascuno spettano pure al PSD
(Partito socialdemocratico) e al PL (Partito liberale), uno al PCD (Partito
cristiano-democratico); infine ministro della giustizia è stata nominata una
personalità indipendente: Alphonse-Marie Nkubito, procuratore della corte
d’Appello di Kigali e noto attivista per i diritti umani di etnia hutu. Da
notare che le competenze della vicepresidenza e del ministero della difesa sono
riunite nella stessa persona, ovvero il generale Kagamé”.[6]
Una prima violazione degli accordi di pace di Arusha appare, però,
subito evidente: il Fronte prende tutti i posti riservati al MRND, il partito
unico precedentemente al potere. È opportuno sottolineare che i due posti più
importanti, quello di presidente e di vice presidente, sono rivestiti da
esponenti del Fpr. Vedremo in seguito che le personalità politiche non
allineate alle idee del Fronte saranno costrette alle dimissioni o all’esilio.
Il governo si trova ad affrontare due emergenze: i processi agli autori
del genocidio e la presenza alle frontiere di milioni di profughi, tra i quali
si nascondono i responsabili del genocidio. Dopo anni di guerra, i magistrati e
gli avvocati del Rwanda sono morti o fuggiti all’estero; come assicurare
allora una giustizia celere ed imparziale ? Nemmeno la comunità
internazionale sembra capace di dare una risposta valida a questa domanda. Il
Tribunale penale internazionale per il Rwanda è creato dall’Onu l’otto
novembre 1994 ed è presieduto dall’italiano Cassese; con la risoluzione n°
955 il Consiglio di sicurezza ne fissa lo statuto e la sede ad Arusha, in
Tanzania. Questa Corte è imparziale, ma troppo lenta; il primo processo inizia,
infatti, solo nel 1997.
Sul fronte giudiziario, il governo permette l’arresto di migliaia di
innocenti; nel giro di pochi mesi, le prigioni rwandesi si riempiono fino a
scoppiare. Basta la semplice accusa di falsi testimoni, magari desiderosi
d’impossessarsi dei beni del presunto genocidario, per arrestare ingiustamente
qualcuno. Molte persone sono condotte in centri di detenzione non ufficiali e si
moltiplicano i casi di esecuzioni extragiudiziali. Le condizioni
igienico-sanitarie delle prigioni sono pessime; non ci sono servizi igienici e i
detenuti sono ammassati a centinaia gli uni sugli altri, in ambienti angusti e
malsani.
Per quanto riguarda il problema del rientro in patria dei rifugiati, la
politica del governo si rivela fallimentare; sono pochi quelli che si azzardano
a rientrare e chi torna in patria è quasi sempre arrestato, perché ritenuto
colpevole di genocidio.
Il 22 aprile 1995 migliaia di persone di etnia hutu sono massacrate
dall’esercito nel campo profughi di Kibeho. L’Onu parla di ottomila morti,
il mensile dei comboniani Nigrizia di
almeno duemila, mentre per il presidente Bizimungu le vittime sono poco più di
trecento. In seguito a questi tragici eventi, l’Unione europea decide di
sospendere i finanziamenti al governo di Kigali.
All’interno
del governo, il primo ministro Twagiramungu, il ministro degli interni Seth
Sendashonga, il ministro della giustizia Alphonse Nkubito ed il ministro
dell’informazione Jean-Baptiste Nduwingoma cercano di opporsi a queste
illegalità e protestano in Consiglio dei ministri per i metodi repressivi usati
dall’esercito contro i bahutu, ma il 30 agosto sono costretti da Paul Kagame a
rassegnare le dimissioni. Twagiramungu decide di andare in Belgio, mentre
Sendashonga si rifugia in Kenya, dove sarà assassinato alcuni mesi dopo da
sicari inviati dal governo di Kigali. Il quotidiano francese “Le Monde”
scrive che è morto lo “spirito di Arusha, nonostante ne siano salvaguardate
le forme”. La sostituzione di Twagiramungu con Pierre Celestin Rwigema (MDR)
non riesce a mascherare l’indurimento della linea politica del governo di
Kigali. Il 31 agosto è assassinato da uomini in divisa il giudice Bernard
Nikuze, muhutu, che in un seminario locale dell’Onu su giustizia e diritti
umani aveva denunciato alcuni episodi specifici[7].
Rwigema
è un muhutu moderato, ma privo di una forte personalità ed incapace di opporsi
al volere del FPR. Nel 1996 lo incontro a Cyangugu, mentre è in visita
all’orfanotrofio nel quale presto la mia opera come volontario del MOCI
(Movimento di cooperazione internazionale) di Reggio Calabria. Le misure di
sicurezza sono impressionanti, anche perché, dalla vicina frontiera con lo
Zaire, ogni notte vi sono incursioni di ribelli. Il discorso del primo ministro
è deludente, soprattutto perché gli aiuti del governo destinati ai circa 200
orfani si riducono all’acquisto di alcune galline e pulcini.
Il 5 dicembre 1995 il segretario generale dell’Onu Boutros Ghali
annuncia il ritiro di 1.800 uomini della missione delle Nazioni Unite in Rwanda
“perché non sono più graditi alle autorità politiche di Kigali”[8].
Il 19 aprile 1996 l’ultimo contingente Onu lascia il Rwanda. Non ci sono più
scomodi testimoni delle violazioni dei diritti umani effettuati dall’esercito
e dal governo.
Un altro segnale inquietante è la decisione, comunicata nei primi di
dicembre 1995 dal ministero della riabilitazione, di allontanare dal paese,
senza fornire adeguate spiegazioni, una quarantina di Ong, tra cui le italiane
Cuamm e Intersos. Alcune di queste esplusioni, sempre secondo Raffaello Zordan,
sono guidate da un criterio di gradimento politico. Solo così si spiega la
decisione di espellere le sezioni francese e svizzera di “Medici senza
frontiere”, mentre le sezioni belga, spagnola e olandese continuano a lavorare
indistrurbate.
Il 25 luglio 1996 Pierre Buyoya, mututsi, con un colpo di stato prende il
potere in Burundi. A Bujumbura c’è ora un governo amico ed il Rwanda può
preparare più agevolmente la sua offensiva contro i ribelli nascosti nei campi
profughi della regione del Kivu (Zaire). Don Pierre, un sacerdote rwandese, mi
dice, in un colloquio avuto a Kigali, che l’esercito è pronto ad invadere lo
Zaire.
A settembre inizia nel Kivu l’offensiva dei ribelli congolesi
banyamulenge, aiutati dal Rwanda, dall’Uganda e dal Burundi. Dal 15 al 19
ottobre rientrano in Rwanda circa 500.000 rifugiati; a migliaia sono arrestati
ingiustamente e molti sono massacrati dall’esercito.
Agli inizi di novembre don Jean-François Kayiranga, della diocesi di
Nyundo, è arrestato con l’accusa di genocidio; sale così a cinque il numero
dei sacerdoti detenuti nelle carceri rwandesi. Le relazioni tra stato e chiesa
continuano ad essere tese.
I vescovi del Rwanda e del Burundi si riuniscono a Kigali dal 21 al 23
gennaio 1997; nel loro documento finale denunciano una società senza più alcun
rispetto per le leggi civili e morali, segnata da “una pauperizzazione
crescente della popolazione, crocifissa da sofferenze di ogni tipo originate da
un clima generale di ingiustizia, di insicurezza e di violenza che arriva a
trasformarsi in massacri e genocidi”.[9]
Il 2 febbraio viene ucciso mentre celebrava la messa padre Guy Pinard, 61 anni,
canadese, dell’Istituto dei Missionari d’Africa (Padri Bianchi); lavorava in
Rwanda da circa trent’anni.
Le violazioni dei diritti umani continuano senza sosta; Amnesty
International denuncia che almeno seimila civili sono stati uccisi in Rwanda dal
gennaio all’agosto 1997.
Nel gennaio 1998 Paul Kagame è invitato a Bruxelles dalla Commissione
sviluppo e cooperazione del Parlamento europeo, presieduta dal socialista
francese Michel Rocard. Kagame è accolto in Belgio come un capo di stato ed è
ricevuto, oltre che dal premier Jean Luc Dehaene, anche dal re Alberto II. Il
leader rwandese è aspro e franco: “Spesso l’Europa è stata parte del
problema rwandese. L’Europa ha denunciato con spirito distruttivo la
situazione dei diritti umani, delle prigioni rwandesi, dei profughi rientrati.
Ma nessun aiuto ci è stato fornito per risolvere tali problemi”. Il
vicepresidente non prende impegni sull’organizzazione di elezioni politiche:
“Non credo che i contenuti della democrazia siano misurabili dalla frequenza
delle elezioni”[10].
Il 15 febbraio diviene presidente del FPR.
A settembre arrivano le prime condanne del Tribunale penale
internazionale. Il 2 Jean-Paul Akayesu, ex sindaco di Taba, è riconosciuto
colpevole di genocidio, incitamento diretto e pubblico a commettere il
genocidio, crimini contro l’umanità per sterminio, assassinio, tortura ed
altri atti commessi contro i batutsi residenti sul territorio da lui
amministrato. Il 4 è condannato all’ergastolo per genocidio Jean Kambanda,
primo ministro rwandese nel 1994, arrestato in Kenya nel 1997. Il segretario
dell’Onu Kofi Annan ha giudicato la sentenza un punto di svolta “nella
storia del diritto internazionale”[11].
L’episcopato rwandese, nella lettera pastorale del 20 novembre con la
quale indice un sinodo straordinario, in preparazione del giubileo del 2000,
destinato alla questione etnica, fa questa richiesta: “Domandiamo ai cristiani
di tutte le categorie di mobilitarsi per trovare la soluzione alle nostre
divisioni, ai nostri odi e ai nostri interminabili conflitti”.
Il 7 aprile 1999, in occasione del quinto anniversario del genocidio, il
presidente Bizimungu accusa Augustin Misago, vescovo di Gikongoro, di essere
implicato nella pianificazione del genocidio; il 14, dopo un’aggressiva
campagna di stampa nei suoi confronti, Misago è arrestato. Fino a quel momento,
non erano state avviate indagini contro di lui, né da parte della magistratura,
né da parte della polizia. Il 15 il portavoce della Santa Sede, Joaquin Navarro
Vals, sottolinea che “l’arresto di un vescovo è un atto di estrema gravità
che ferisce non solo la chiesa in Rwanda, ma l’intera chiesa cattolica”. Lo
stesso giorno, il vescovo Simon Ntamwana pubblica, a nome della conferenza
episcopale burundese, un breve comunicato di solidarietà a “tutti i vescovi e
tutta la chiesa cattolica del Rwanda”.
Nel
suo editoriale del maggio 1999, la redazione di Nigrizia
attacca duramente il governo di Kigali: “Chi ha seguito negli cinque ultimi
anni le vicende rwandesi - dall’attentato che ha posto fine alla vita e al
regime hutu di Juvénal Habyarimana, all’uccisione di almeno 500mila tra tutsi
e hutu moderati fino all’arrivo al potere del Fronte patriottico di Paul
Kagame - è consapevole che questo arresto è, per così dire, logico. Risponde
alla logica di un potere che, non avendo una vera base sociale e non essendo
riuscito a normalizzare né, tanto meno, a pacificare il paese, si mantiene a
galla agendo su due fronti; (...) A questa logica non poteva certo sfuggire la
chiesa cattolica, più volte richiamata all’ordine con il chiaro intento di
farne un docile strumento nelle mani di Kigali”.[12]
Il 9 giugno il governo di Kigali rifiuta di mantenere la promessa fatta
cinque anni prima; il ritorno alla democrazia è ritardato ed il periodo di
transizione è prolungato di altri quattro anni. Il FPR sa bene, infatti, che in
caso di elezioni libere e democratiche sarebbe sicuramente sconfitto e dovrebbe
rinunciare al potere o quantomeno dividerlo con altri partiti, prevalentemente
bahutu.
Il 16 dicembre la commissione d’inchiesta dell’Onu denuncia, dopo
otto mesi di lavoro, le responsabilità delle Nazioni Unite nel genocidio del
1994: non intervennero per fermare i massacri.
Nei primi mesi del 2000, alcuni tra i principali responsabili del
genocidio sono consegnati al TPI; si tratta di Elizaphan Ntakirutimana, ex
presidente della chiesa avventista del Rwanda, estradato dagli Usa, Tharcisse
Muvunyi, ex colonnello, arrestato a Londra e Jean de Dieu Lamuhauel, estradato
dalla Francia.
Il 28 febbraio si dimette il primo ministro Rwigema, accusato di
corruzione; dopo alcune settimane, sceglierà la via dell’esilio. Al suo posto
è nominato Bernard Makuza (Mdr), ex ambasciatore in Germania.
In un articolo pubblicato il 1° marzo, il giornale canadese National Post accusa Paul Kagame di responsabilità dirette
nell’attentato che il 6 aprile provocò la morte di Habyarimana. Nigrizia
è il primo mensile italiano a pubblicare la notizia: “Secondo il National
Post, nell’agosto 1997 tre militari del Fronte patriottico rwandese (Fpr,
il movimento di Kagame) hanno affermato davanti agli inquirenti del Tribunale
penale internazionale sul Rwanda (Tpir, con sede ad Arusha, Tanzania) di aver
preso parte all’attentato e che Paul Kagame aveva il comando di
quell’operazione. La decisione di eliminare Habyarimana sarebbe stata presa,
secondo i tre informatori, perché i negoziati di Arusha non avanzavano
abbastanza rapidamente, Habyarimana avrebbe potuto varare un governo di
transizione e arrivare alle elezioni, il che avrebbe messo in forte difficoltà
l’Fpr. Di queste affermazioni - che evidentemente Louise Arbour, all’epoca
procuratore capo del Tpir e oggi giudice della Corte suprema in Canada, non ha
preso in considerazione - erano al corrente anche le Nazioni Unite, sostiene
ancora il National Post. L’Onu il 29
marzo, dopo quasi un mese di silenzio, ha ammesso l’esistenza di un rapporto
interno relativo a queste accuse”.[13]
Il 23 marzo si dimette il presidente Bizimungu, ufficialmente per
“ragioni personali”, in realtà per contrasti sulla formazione del governo e
per un’insanabile disparità di vedute con Kagame. Era uno dei pochi muhutu al
potere. Il 17 aprile il parlamento elegge, quasi all’unanimità, Paul Kagame
presidente della Repubblica. Tutte le cariche principali sono ormai nelle sue
mani: capo dello Stato, comandante in capo dell’esercito, presidente del Fpr,
ministro della difesa (anche se il 29 aprile un muhutu è nominato ministro
della difesa). Nessuno può ormai negare che in Rwanda tutto il potere sia nelle
mani della minoranza tutsi. Così commenta Augusto D’Angelo: “C’è chi
afferma che con le dimissioni di Bizimungu tramonta la speranza di multietnicità
nella guida del Rwanda. In verità quel che accade è una istituzionalizzazione
trasparente della leadership rwandese.
Tutti sapevano che già prima delle dimissioni era Kagame a comandare. Ora dovrà
farlo dal seggio più alto, quello della presidenza della Repubblica”.[14]
Il processo Misago, intanto, entra nella sua fase finale. Il 9 maggio il
pubblico ministero chiede la condanna a morte; il giorno dopo, il papa invia un
telegramma di solidarietà al vescovo. L’11 i tre avvocati difensori
pronunciano le loro arringhe difensive. Il 15 giugno Misago viene assolto ed è
immediatamente liberato. In settembre è a Roma per incontrare Giovanni Paolo II
(il papa lo riceve l’otto) e così risponde a una domanda del prof. D’Angelo
sui rischi riguardanti il suo rientro in Rwanda: “Nel ritornare vi sono
rischi, mi attendono nuove difficoltà, ma le accetto. L’arresto,
l’incarcerazione di un anno, la richiesta di condanna a morte testimoniano la
volontà di eliminarmi. Molti amici qui in Europa mi hanno consigliato di non
tornare in Ruanda perché pericoloso. Ma io devo tornare. Non sono fuggito
quando ero accusato, come potrei rimanere in esilio ora che sono stato
riconosciuto innocente! Se non tornassi qualcuno potrebbe restare col dubbio
sulla mia innocenza”[15].
Il 17 settembre Misago rientra nel suo paese. Il 27 ottobre la corte d’appello
di Kigali assolve due sacerdoti, condannati a morte in primo grado.
Il 5 febbraio 2001, in occasione del centenario dell’evangelizzazione
del Rwanda, Giovanni Paolo II invia un messaggio in cui invita tutti alla
riconciliazione.
In marzo si tengono le prime elezioni municipali dopo il genocidio.
Il 12 aprile viene spiccato un mandato di cattura internazionale contro
l’ex primo ministro Rwigema.
Il 31 maggio l’ex presidente Bizimungu è agli arresti domiciliari.
Aveva annunciato la creazione di un nuovo partito politico.
Il 6 ottobre un volontario italiano è ucciso a Kigali con due colpi di
pistola.
Il 2 gennaio 2002 il governo di Kigali cambia l’inno nazionale e la
bandiera rwandese.
Il 16 il Monitor di Kampala
pubblica un articolo in cui si annuncia la nascita dell’ADR (Alleanza
democratica rwandese). Questa nuova coalizione comprende due forze politiche, il
CDA (Congresso democratico africano) ed il MPDD (Movimento per la pace, la
democrazia e lo sviluppo). Il portavoce, Sixbert Musangamfura, annuncia una
forte opposizione al regime di Kigali.
Per tutto il 2002 si susseguono gli arresti arbitrari e gli omicidi
politici. Se le cose continuano così, nel futuro prossimo non ci sarà speranza
di pace e di democrazia per il Rwanda. Eppure, nonostante tutto, mi ritornano in
mente le parole del grande André Sibomana, sacerdote, giornalista e difensore
dei diritti umani: “gardons espoir pour le Rwanda” (conserviamo la speranza
per il Rwanda).
Il
Burundi è un piccolo paese, con circa sei milioni d’abitanti. Ex colonia
belga, ha ottenuto l’indipendenza nel 1962. Nel 1966 il re è deposto e nasce
la Repubblica. Fin dall’indipendenza, il potere è stato sempre nelle mani dei
batutsi; anche l’esercito era ed è mono-etnico. Dopo gli anni tristi della
dittatura di Bagaza, sale al potere, con un colpo di stato, il maggiore Pierre
Buyoya che nel 1993 decide finalmente di indire libere elezioni; Melchior
Ndadaye, muhutu, del FRODEBU (Fronte Democratico del Burundi), è eletto
presidente della Repubblica con una maggioranza schiacciante. Per molti
burundesi, un sogno lungamente atteso si è realizzato: è nata la democrazia,
è fiorita la speranza.
Dopo
pochi mesi, questo sogno s’infrange: il presidente Ndadaye è assassinato in
ottobre da alcuni militari e scoppia la guerra civile, nel corso della quale ci
saranno centinaia di migliaia di morti. Al posto del defunto presidente, è
nominato Cyprien Ntaryamira, muhutu, anche lui del FRODEBU. Il 6 aprile 1994 il
presidente burundese muore, insieme al suo omologo rwandese, nell’attentato di
Kigali. Sylvestre Ntibantunganya, anche lui muhutu, presidente dell’Assemblea
nazionale, è nominato capo dello Stato e governa il paese per due anni.
È un buon presidente, intelligente e moderato e l’esecutivo da lui
presieduto è multi-etnico. Il 25 luglio 1996 Pierre Buyoya, mututsi, ex
presidente-dittatore, prende il potere con un colpo di stato. La comunità
internazionale decreta l’embargo contro il Burundi. La guerra civile continua;
a capo dei miliziani bahutu c’è Léonard Nyangoma, mentre l’esponente
dell’estremismo tutsi è l’ex dittatore Bagaza.
Il
mediatore incaricato di risolvere la crisi è Julius Nyerere, ex presidente
della Tanzania; fino alla fine, svolge il suo incarico in modo mirabile ed
ottiene alcuni risultati significativi. Dopo la morte del “mwalimu”
(“maestro”), un grande statista africano prende il suo posto: si tratta di
Nelson Mandela, premio Nobel per la pace ed ex presidente del Sudafrica. Egli
intensifica i contatti e invita tutti alla moderazione. Nel 2001 si arriva al
cessate il fuoco e il primo novembre nasce un governo di transizione.
L’ipotesi di Mandela è semplice: una presidenza a rotazione, un mandato per
un muhutu, un altro per un mututsi. I bahutu, che sono la maggioranza, non si
sentirebbero garantiti da un presidente mututsi; ma i batutsi, che sono in
minoranza ma controllano l’esercito, avrebbero paura di subire un genocidio
come quello rwandese in caso di predominio assoluto dei bahutu. Il piano del
premio Nobel porta quindi alla formazione di un governo transitorio di unità
nazionale, in cui i ministeri sono equamente distribuiti tra le due etnie.
Alcuni estremisti non accettano gli accordi, ma i più importanti partiti
politici entrano nel governo. Primo ministro è nominato Jean Minani, muhutu,
del FRODEBU; il vice presidente è il muhutu Domitien Ndayizeye. I soldati
sudafricani hanno l’incarico di proteggere i ministri del nuovo governo.
Col
passare dei mesi, però, la guerriglia continua ed i morti si contano a
centinaia. Il 18 maggio 2002 il vescovo di Ruyigi Joseph Nduhirubusa viene
rapito dai guerriglieri, dopo uno scontro a fuoco che ha provocato la morte del
suo autista. Dopo alcune settimane, il sacerdote viene rilasciato.
Il
30 aprile 2003 Buyoya cede il potere al suo vice, Domitien Ndayizeye, il cui
mandato durerà 18 mesi, dopo i quali ci saranno le elezioni presidenziali.
CONGO:
UN PAESE RICCO ABITATO DA GENTE POVERA
La
Repubblica democratica del Congo è un paese enorme, dieci volte più grande
dell’Italia. È ricchissimo di materie prime: oro, diamanti, rame, cobalto,
uranio, coltan; ma, paradossalmente, i congolesi sono poverissimi. In 32 anni di
dittatura, Mobutu ha saccheggiato il paese accumulando un patrimonio superiore
ai 10 miliardi di euro. Questo denaro, che appartiene al popolo congolese, è
nascosto in parte nelle banche svizzere, in parte in altri “paradisi
fiscali”. In verità, una piccola porzione di quest’enorme fortuna è stata
congelata dalle autorità elvetiche e forse un giorno sarà restituita. Nel
settembre 1996 i banyamulenge, un popolo del Kivu (est del Congo), si ribellano
a Mobutu e iniziano una rivolta, che presto si estende. Nasce l’AFDL (Alleanza
delle Forze Democratiche di Liberazione del Congo-Zaire), con a capo Laurent
Kabila, che da molti anni combatte contro la dittatura di Mobutu; loro alleati
sono i rwandesi, gli ugandesi e i burundesi. In pochi mesi l’Alleanza avanza
rapidamente; l’esercito zairese è allo sbando, mentre Mobutu, gravemente
malato, va a curarsi in Europa. In primavera le truppe di Kabila sono alle porte
di Kinshasa. Invano Mandela organizza un incontro tra Mobutu e Kabila, a bordo
di una nave sudafricana. L’anziano dittatore lascia per sempre il Congo e,
dopo aver passato alcuni giorni dal suo amico Eyadema, presidente-dittatore del
Togo, va in Marocco, dove morirà poco dopo.
Il
17 maggio l’AFDL entra a Kinshasa e Kabila si auto-proclama presidente della
Repubblica democratica del Congo, ripristinando il nome dell’indipendenza,
modificato in Zaire da Mobutu negli anni ’70. Il popolo è in festa e i
giovani gridano “libérés”, liberati. In realtà, col passar dei mesi tutti
si renderanno conto d’essere passati da un dittatore ad un altro, anche se
Kabila è sicuramente meno ladro di Mobutu, uno dei peggiori dittatori di tutti
i tempi. Il leader dell’opposizione democratica, Etienne Tchisekedi, non entra
a far parte del nuovo governo e le elezioni sono rimandate sine die. Ministro
degli esteri è un rwandese, Bizima Kara; questo la dice lunga riguardo
all’influenza delle autorità di Kigali su Kabila. I rwandesi, però,
esagerano: i soldati dell’APR (Esercito Patriottico Rwandese), presenti
soprattutto nell’est del Congo, violano i diritti umani, uccidono, rubano.
Nell’estate 1998 Kabila ordina all’esercito rwandese di lasciare
immediatamente il paese. Nell’agosto scoppia la guerra e, in breve tempo,
tutti i paesi della regione ne sono coinvolti. Con Kabila si schierano lo
Zimbabwe, l’Angola e la Namibia; contro di lui, il Rwanda, l’Uganda e, di
nascosto, anche il Burundi. Il conflitto fa un numero enorme di vittime (da due
a tre milioni di morti). Nel 1999 si arriva finalmente agli accordi di pace di
Lusaka (Zambia).
Il
16 gennaio 2001 Kabila è assassinato; dopo pochi giorni, suo figlio Joseph è
nominato presidente. Sembra quasi che il Congo non sia più una Repubblica, ma
una monarchia! Chi ha ucciso Laurent Kabila? Una delle sue guardie del corpo lo
ha assassinato ed è stata subito uccisa da altri soldati; non potrà più dire
il nome del mandante di questo omicidio politico. Le ipotesi sono tante, perché
il defunto presidente-dittatore aveva molti nemici; per ora, nessuno conosce la
verità. Joseph è un giovane militare, senza alcuna esperienza in politica; sarà
capace di governare un paese immenso e in guerra come il Congo? Dopo un anno di
governo, il mio giudizio sul suo operato è sostanzialmente negativo: il popolo
continua a soffrire e non c’è traccia di riforme.
Nel
2001 il Parlamento belga decide di costituire una commissione d’inchiesta
sulla morte di Patrice Lumumba, primo ministro congolese ucciso il 17 gennaio
1961. Dopo alcuni mesi, la commissione d’inchiesta stabilisce che il governo
belga ha la responsabilità morale della morte di Lumumba. Il ministro degli
esteri Michel porge le scuse del governo belga a quello congolese; c’è molta
ipocrisia in questa operazione e, soprattutto, non si vogliono ammettere le
responsabilità politiche del Belgio, anche per evitare un’eventuale richiesta
di risarcimento danni. Il professor Ludo de Witte, in un suo libro, ha
dimostrato chiaramente le responsabilità non solo morali, ma anche politiche e
giuridiche del Belgio nell’assassinio del premier congolese. Gravi sono anche
le colpe della Cia; a lungo gli americani hanno accusato Lumumba, che era un
liberale, di essere un comunista, dunque un pericoloso sovversivo. Mi tornano in
mente le parole di Helder Camara, grande vescovo brasiliano recentemente
scomparso: “Se aiuto i poveri, dicono che sono un santo, ma se mi chiedo perché
ci sono tanti poveri, dicono che sono un comunista”.
In ultima analisi, i responsabili politici e morali della morte di Patrice Lumumba sono i governi occidentali, sempre pronti a considerare come nemico chi, per difendere gli interessi del suo popolo, contrasta la rapacità delle multi-nazionali europee ed americane. L’anti-comunismo è spesso una maschera, dietro cui si cela la difesa di enormi interessi economici. Come può un liberale essere comunista? È come dire che Berlusconi è un comunista o che Ciampi è un fascista. Un giorno qualcuno lo spiegherà ai sapientoni di Washington, Parigi e Bruxelles.
Il 19 gennaio 2002 è sabato; il telegiornale mostra le immagini di Goma sepolta dalla lava del vulcano Nyiragongo. Nel primo pomeriggio squilla il cellulare: è il presidente di una ong aderente alla FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario). “In Congo c’è un’emergenza, centinaia di migliaia di persone hanno perso tutto quello che avevano. Se te la senti, c’è bisogno di una mano”. “Sono pronto, in 48 ore sarò in Africa”. Non c’è tempo per riflettere, bisogna agire subito. Primo problema: il biglietto aereo. È sabato e la “nostra” solita agenzia di viaggio vicino al Vaticano è chiusa. Telefono direttamente all’Ethiopian Airlines; il primo volo possibile parte da Roma alle 01,40 di lunedì 21 gennaio. Ho poche ore per preparare un bagaglio a mano, imballare la stampante che mi è stato chiesto di portare a Kampala, salutare i genitori e gli amici. Domenica, dopo la messa, Francesco, Giorgio e Francesco “Platini” mi accompagnano a prendere il pullman per Roma; alle 23 sono finalmente a Fiumicino e, dopo il check-in, m’imbarco sul volo per Addis Abeba. Viaggio in compagnia di due suore di S. Gemma e di due volontari laici: sono diretti a Bukavu, in Congo. Alle 9,30 l’aereo arriva puntuale nella capitale etiopica ed attendo in aeroporto il volo per Nairobi, leggendo La Repubblica di domenica:
Congo, l’eruzione non si ferma, in migliaia assediati dalla lava.
“La fuga è finita davanti alle acque del lago Kivu. Gli abitanti di Goma, terrorizzati dal mostro incandescente che li inseguiva a sessanta chilometri l’ora, erano scappati in tutte le direzioni. Molti si erano buttati fra le braccia dei ruandesi, rischiando magari di essere riconosciuti come miliziani hutu Interahamwe, e processati per i crimini del genocidio del ’94. Altri erano fuggiti verso ovest, scendendo verso zone del Congo politicamente “più tranquille”, ma difficili da raggiungere per gli aiuti”.
Dove si dirigeranno i rifugiati ? Dove saranno installati i campi profughi ? In quale di questi campi andrò ? Quale sarà la reazione dell’APR, l’esercito rwandese ? Qui ad Addis Abeba nessuno può rispondere a queste domande; forse a Nairobi, dove dovrò attendere 7-8 ore, i missionari comboniani sapranno dirmi qualcosa; forse leggendo un quotidiano avrò notizie sull’evolversi della situazione. Arrivo nella capitale del Kenya con un’ora di ritardo. In sala d’attesa incontro una signora congolese, coi suoi tre figli di tredici, quattordici e sedici anni. Mi dice d’essere scampata alla morte per miracolo. Giovedì 16 era al lavoro nel suo ufficio di Goma; la radio diceva di stare calmi, perché non c’era il pericolo imminente di un’eruzione. Alle 12 ha deciso di lasciare il suo posto di lavoro, alle 12,30 l’intero palazzo è stato distrutto dalla lava. Dopo essere andata in Rwanda, è riuscita ad arrivare a Nairobi e tra poche ore prenderà un volo per gli Stati Uniti, dove l’attende suo marito. E il suo conto in banca ? Mi spiega che, in Congo, in casi come questi le banche sono saccheggiate da delinquenti o da militari e non c’è alcuna possibilità di riavere il proprio denaro.
Incontro suor Bernadette, burundese, della Congregazione di S. Gemma, lo stesso Istituto di suore incontrate sull’aereo per Addis Abeba: la sua storia è davvero incredibile ! La religiosa congolese è partita dalla Costa d’Avorio, dove svolge la sua attività in favore dei più poveri, sabato 18 gennaio, per andare a trovare suo padre, gravemente ammalato. Suor Bernadette fa scalo a Nairobi dove, dopo una breve sosta, dovrà imbarcarsi per Bujumbura. Al momento di salire, c’è qualcosa che non va; il personale di bordo dice che l’aereo è pieno e non c’è posto per lei. Inutili sono le proteste della religiosa, che mostra il suo biglietto col posto prenotato. La sentenza è dura da accettare: non ci sono più voli per il Burundi e dovrà restare in Kenya fino a mercoledì. Non è ancora finita: per uscire dall’aeroporto, dovrà pagare il visto d’ingresso di venti dollari, che suor Bernadette non ha. Conclusione: la religiosa è bloccata da tre giorni all’aeroporto e dovrà restarvi altri due. La compagnia aerea le rifiuta perfino i pasti e solo in un secondo tempo decide di concedere alla suora burundese quello che è un suo diritto sacrosanto. Leggo sullo Star, un quotidiano dello Zambia, che migliaia di rifugiati sono ritornati a Goma; alcuni tra loro dichiarano di preferire la morte a casa propria, piuttosto che vivere in un campo profughi in Rwanda. È sempre forte il timore dello scoppio di epidemie; molti, disperati e assetati, bevono le acque del lago Kivu, che potrebbero essere avvelenate in seguito all’eruzione vulcanica. Alle 22 m’imbarco per l’Uganda e alle 23,30 arrivo ad Entebbe, dove tre italiani mi attendono: si tratta di Mario, di Daniela e di un tipo losco, che chiamerò signor Rossi. Ci sono molte cose da capire per rispondere all’emergenza ed il signor Rossi me le spiega fino alle 3 del mattino; alle 3,30 finalmente andiamo tutti a dormire.
L’indomani la sveglia suona alle 6,30; solo tre ore di sonno, ma non c’è tempo per riposare. Bisogna accertarsi che il camion, come da precedenti accordi, parta per Goma alle 8. Alle 7,30 siamo al luogo dell’appuntamento, ma gli autisti non ci sono. Dopo un giro di telefonate, capiamo che è una tattica per avere più soldi. Verso le 10, i due autisti finalmente si fanno vivi; bisogna cambiare due pneumatici, totalmente usurati. Non siamo in Europa: oltre tre ore per cambiare due gomme ! Alla fine, chiedono 350 dollari d’anticipo e, verso le 14, il camion parte, coi due autisti ed i due logisti, Kourouma e Charles. Sarei voluto partire anch’io, ma il signor Rossi ha preferito di no. Ci mettiamo a lavorare al computer per ultimare il progetto d’emergenza da presentare alla Cooperazione italiana e alla sera lo illustriamo alla dottoressa Florinda Guadagna, che ci indica alcune correzioni da fare e ci consiglia di presentare il progetto l’indomani.
Al mattino presto Daniela, che aveva curato il progetto Goma, prende il volo per l’Italia. Apportiamo le modifiche consigliate e consegniamo il fascicolo alla Cooperazione italiana, organismo dipendente dal Ministero degli esteri, che ha sede in Lourdel Road, presso la nostra ambasciata. Ora bisogna organizzare il secondo camion per Goma; nel primo c’erano 250 coperte, alcune tonnellate di zucchero, biscotti e medicine. Nel secondo caricheremo 7 tonnellate di fagioli. Abbiamo la fortuna d’incontrare Jean Guy, un trasportatore d’origine italiana, molto serio, che organizza il viaggio e ci consiglia dove acquistare la merce. Ci diamo appuntamento a domani per gli ultimi accordi. Intanto Kourouma ci telefona per dirci che il nostro camion è arrivato a Goma: tre giorni per percorrere 700 chilometri ! Giovedì 24 mi sveglio alle 5; una zanzara mi tormenta ed è meglio alzarsi, fare una doccia e cominciare subito a lavorare. Contattiamo Jean Guy, che ci conferma la possibilità di acquistare le 7 tonnellate di fagioli da un suo amico e ci dice che nel primo pomeriggio inizieranno a caricare la merce. Scriviamo una lettera in cui si dichiara che il contenuto del camion è un dono del governo italiano per l’emergenza a Goma. Oltre al timbro della nostra ong, c’è anche quello della Cooperazione italiana. È un documento che potrà esserci utile alla frontiera. Passiamo in banca a ritirare il denaro per pagare il nostro fornitore: la spedizione ci costa oltre tremila euro, che saranno poi rimborsate dal governo italiano. Alle 18 il carico è pronto e alle 19 finalmente si parte. L’autista, molto bravo, è un rwandese, Jean Marie Vianney. Viaggio accanto a lui mentre, all’interno del camion, c’è Abdel Karim, anche lui del Rwanda, incaricato di sorvegliare la merce. Verso le 22,30, l’autista si accorge che una ruota è un po’ sgonfia. Ci vorrà circa un’ora per risolvere il problema. A mezzanotte andiamo a dormire in una specie di hotel molto economico, vicino Mbarara.
Venerdì 25 gennaio: alle 6 si parte, con la speranza d’arrivare a Goma prima che sia buio. Piove, ma la temperatura è piuttosto elevata. Non c’è traffico e la strada è ben asfaltata. Ogni tanto incontriamo delle mandrie di vacche dalle corna a forma di cerchio, sorvegliate da pastori adolescenti. Quanto tempo perderemo alla frontiera ? Solo Dio lo sa. Arriviamo a Kabale, la città dalla quale, nell’ottobre 1990, partì l’avanzata del Fpr verso il Rwanda. Mi torna in mente il titolo di un paragrafo del bel libro di Casadei e Ferrari: appuntamento armato a Kabale.[16] Verso le dieci arriviamo alla frontiera e, dopo circa due ore di attesa per espletare le formalità burocratiche, siamo in Rwanda. Che emozione per me tornare dopo sei anni nel Paese delle mille colline ! In un paio d’ore siamo a Kigali; mentre i due bravi rwandesi pranzano, ho il tempo di salutare rapidamente le suore di madre Teresa di Calcutta. Visito il loro orfanotrofio, nei pressi della parrocchia della Santa Famiglia, e mi colpisce un bambino, forse appena arrivato, che reca sul volto segni evidenti di malnutrizione. Le missionarie della carità sono bravissime, straordinarie, degne della loro santa fondatrice.
Bisogna, però, partire in fretta, per arrivare prima che sia buio. Fino alla frontiera col Congo ci sono circa 200 chilometri, ma la strada è in salita ed il camion, che è a pieno carico, procede molto lentamente. Quando arriviamo a Gisenyi sono le 19 ed il sole è già tramontato da circa trenta minuti. Alla frontiera ci dicono che l’ufficio è chiuso e non si può passare fino a domani. Dopo aver fatto un “regalo” di 20 euro, riesco ad ottenere il permesso d’attraversare la frontiera a piedi. È buio e, nonostante mi sia trovato molte volte in situazioni difficili e pericolose, comincio ad aver paura. Non sono mai stato a Goma; l’unica cosa che so è che devo andare alla parrocchia di Nostra Signora d’Africa. Un giovane rwandese mi chiede 70 dollari per accompagnarmi fino alla parrocchia, ma è una somma spropositata e rifiuto l’offerta. Mi avvio a piedi, faccio l’autostop, un giovane si ferma con la sua moto e mi chiede quanto gli offro per un passaggio: ci accordiamo per 5 dollari, ma poi mi viene in mente che ho solo banconote da 50 e 100 dollari. Arrivati alla chiesa, gli offro 10.000 scellini ugandesi, l’equivalente di 5 dollari e lui accetta. Busso alla porta e uno dei missionari, padre Michel, nonostante l’ora tarda, mi apre e mi fa entrare: finalmente sono salvo !
Alle 6 del mattino i padri bianchi celebrano la messa: c’è tanta gente, nonostante sia l’alba. Alle 8 incontro padre Paolo, un missionario italiano appartenente alla Congregazione di S. Francesco Caracciolo, e con la sua auto andiamo alla frontiera. Come sempre avviene coi congolesi, iniziano ad inventare delle tasse inesistenti. Paghiamo 15 dollari, poi ce ne chiedono ancora 50; a quel punto rifiutiamo e facciamo intervenire un rappresentante delle Nazioni Unite, un canadese molto in gamba, e un dirigente della Cooperazione italiana. Alla fine, la situazione si sblocca e ci permettono di attraversare la frontiera col nostro camion. In meno di mezz’ora siamo alla parrocchia Nostra Signora d’Africa. Ci sono 7 tonnellate di fagioli da scaricare e non mi tiro certo indietro, anche se i miei vent’anni sono passati da un pezzo. In un’ora il camion è scaricato, Jean Marie Vianney ed Abdel Karim possono ripartire per Kampala. Anche Kourouma, che era arrivato a Goma alcuni giorni fa col primo camion, parte per Kigali con un’auto della Cooperazione italiana ed io vado a pranzo coi padri bianchi. Nel pomeriggio padre Salvador mi porta a fare un giro a piedi per constatare di persona i danni provocati dalla lava. Almeno un decimo della città è stato distrutto: la cattedrale, il centro commerciale e finanziario, la maggior parte delle scuole. Verso le 18, poiché non c’è ancora la corrente elettrica, i padri mettono in funzione il gruppo elettrogeno; posso ricaricare il cellulare e chiamare il signor Rossi a Kampala, che mi dice di andare a Kigali. La missione a Goma è finita, ma ci sono altre cose importanti da fare in Rwanda.
Domenica la messa inizia alle 6; oltre al sacerdote, salgono sull’altare i ministri straordinari dell’eucarestia, gli accoliti e una decina di bambine, che indossano vesti belle e colorate e ballano leggere ed armoniose, esprimendo con la danza la lode a Dio e il ringraziamento per il dono della vita. Dopo la messa e la prima colazione, padre Salvador mi accompagna oltre la frontiera e, a Gisenyi, prendo un taxi-bus per Kigali. Si tratta di pulmini da 15 posti, anche se gli autisti africani li riempiono sempre fino all’inverosimile. Nella mia fila, infatti, siamo addirittura in cinque invece di tre! Dopo cinque ore di viaggio, sono nella capitale rwandese. Vado di nuovo dalle suore di madre Teresa, i bambini sono contenti di rivedermi, ma apprendo una notizia che mi rattrista molto: il bimbo che credevo denutrito è invece malato di Aids. Dopo la visita alle missionarie della carità, telefono a Johnny, il nostro referente a Kigali, che arriva in meno di un’ora. È giovane, somiglia ad Eddie Murphy e parla un buon italiano; gli chiedo alcuni numeri di telefono e prendiamo accordi per l’indomani.
Lunedì 28 gennaio, dopo la messa, vado al Consolato d’Italia per segnalare la mia presenza; è una procedura precauzionale, che tutti gli italiani farebbero bene a seguire. Johnny è già lì ad aspettarmi; do il mio passaporto alla signora Dina che, dopo aver fatto le fotocopie delle pagine più importanti, me lo restituisce. Insieme a Johnny, vado nella sede della Croce rossa, dove incontro Marco Serafino, che è stato il primo volontario della nostra ong negli anni ’80 e ora lavora per la Croce rossa internazionale. Il giovane ingegnere mi illustra un progetto di elettrificazione che potrebbe essere finanziato dal governo italiano e dalla Commissione europea. Nel pomeriggio andiamo nell’ufficio del dott. Nicola De Vito, primo consigliere del rappresentante a Kigali della Commissione europea. L’alto funzionario ci spiega che bisogna, prima di tutto, presentare il progetto al Ministero dei lavori pubblici e, solo in seguito ad approvazione da parte delle autorità rwandesi, si potrà avere il finanziamento dell’Unione Europea. Dopo questo incontro, Marco mi accompagna al “Centro di Pastorale S. Paolo”, dove alloggio. Incontro una coppia, che mi chiede se conosco un negozio di oggetti africani; si tratta di Louis, inglese, e di Miluo, giapponese. Li accompagno al negozio e, dopo una breve visita, gli propongo di andare all’orfanotrofio delle suore. Le missionarie della carità ci accolgono, come sempre, a braccia aperte, Oltre ai bambini, andiamo a trovare anche gli anziani; in tutto, ci sono 180 persone, assistite in modo splendido da 7 suore. Chiedo alla superiora come fa a trovare il tempo per occuparsi di tutte queste persone. La risposta è semplice: “ci alziamo alle 4,30 e andiamo a letto alle 22. Durante il giorno non ci fermiamo un solo istante”. Al momento dei saluti, arriva il regalo più bello; suor Anna Clara mi regala una preziosa reliquia, un pezzetto del vestito di madre Teresa, con sigillo del Vaticano. La ringrazio commosso, con le lacrime agli occhi. Marco Serafino m’invita a cena e poi m’accompagna al “Centro S. Paolo”; alle 22 vado a letto.
Martedì prendo un taxi-bus per Kampala; dopo otto ore di viaggio, arrivo nella capitale ugandese e sono molto felice: ho portato a termine la mia missione, sono ancora vivo, non mi sono ammalato e ho incontrato tante persone meravigliose.
LE RESPONSABILITÀ INTERNAZIONALI
I tre Paesi che hanno le maggiori responsabilità nella crisi della regione dei Grandi Laghi sono il Belgio, la Francia e gli Stati Uniti. Il Belgio, durante l’epoca coloniale, ha fatto ben poco per l’alfabetizzazione e l’istruzione dei popoli colonizzati. Al momento dell’indipendenza, i laureati in Congo si contavano sulla punta delle dita. Quando, nel 1960, Patrice Lumumba diviene primo ministro, il Belgio fa di tutto per eliminarlo, politicamente o fisicamente; poiché la prima soluzione è irrealizzabile, il governo belga, col consenso di quello statunitense, opta per la seconda. Se il Congo ha subito l’ultra-trentennale dittatura di Mobutu, la responsabilità politica e morale è da attribuire in primo luogo al Belgio, che ha assassinato Lumumba e sostenuto il “dinosauro”. Anche gli Stati Uniti hanno appoggiato, in piena guerra fredda, il dittatore congolese, considerato anti-comunista e filo-occidentale. Così un ladro, un assassino, un dittatore, un delinquente come Mobutu è stato ricevuto con tutti gli onori a Bruxelles, a Washington e a Parigi. La Francia, desiderosa di conquistare nuovi mercati per le sue imprese, ha sempre sostenuto il “dinosauro”, soprattutto quando il Belgio ha allentato i legami con la sua ex-colonia. Abbiamo già parlato del sostegno francese al dittatore Habyarimana, concesso anche in ragione dell’amicizia personale che legava François Mitterand al generale rwandese.
Nel nuovo ordine internazionale imposto dagli Stati Uniti, non c’è spazio per elezioni libere e democratiche, ma si parla di “legittimità combattente”. Il potere non appartiene, in questa visione, al popolo, che lo delega ai suoi rappresentanti democraticamente eletti, ma a generali vincitori di presunte guerre di liberazione, che spesso sono invece lotte per il potere. Sono gli Stati Uniti che finanziano dittatori come Paul Kagame e Yoweri Museveni, primi responsabili della guerra che da anni insanguina il Congo ed ha già provocato più di due milioni di morti. Come mai nel 1991 la comunità internazionale intervenne per difendere il Kuwait, invaso dall’Irak, mentre nessuno è intervenuto in Congo, invaso nel 1998 da Rwanda ed Uganda ? La risposta è semplice: non è intervenuto nessuno, perché i governi di Kigali e Kampala sono alleati degli Usa e nessuno può toccare gli amici degli statunitensi.
Anche le Nazioni Unite hanno responsabilità molto forti, soprattutto per quanto riguarda il genocidio rwandese. Quando nel 1994 Romeo Dallaire, comandante dei caschi blu in Rwanda, chiese un rafforzamento del suo contingente, il Consiglio di sicurezza dell’Onu decise invece di ridurlo da 2.500 a 250 unità. È vero che questa decisione fu presa su forte pressione statunitense, ma è altrettanto vero che Boutros Ghali non fece tutto quanto era in suo potere per convincere il Consiglio di sicurezza a decidere diversamente. Un’altra grave responsabilità delle Nazioni Unite è il mancato intervento in Congo nell’autunno 1996; diverso però è stato l’atteggiamento del nuovo segretario generale, il ghanese Kofi Annan. Egli, con una fermezza ed una decisione inusuale in un diplomatico, così si espresse sulla situazione congolese ai microfoni della BBC: “You can kill by shooting or by starvation. Killing by starvation is what is going on”.[17] In effetti, il mancato intervento di un contingente di caschi blu, che consentisse alle organizzazioni umanitarie di distribuire gli aiuti alimentari, provocò la morte di almeno 400.000 persone. Sotto la guida autorevole di Annan, si è notata una maggiore attenzione all’Africa da parte delle Nazioni Unite. Nel 2001 una forza di pace dell’Onu, denominata MONUC, è stata incaricata di sorvegliare l’attuazione degli accordi di Lusaka.
Il 16 ottobre 2002 vado a Cerisano (CS), per intervistare Carlo Carbone,
professore di Storia e Istituzioni dell’Africa e di Storia Contemporanea
nell’Università della Calabria (Cosenza). Il testo, registrato e sbobinato,
è stato riveduto dal docente.
Prof. Carbone, dopo la nomina di Paul Kagame alla Presidenza della Repubblica, è ancor più evidente che il Rwanda è una dittatura. Secondo lei, è possibile prevedere, nel prossimo futuro, lo svolgimento di elezioni libere e democratiche ?
Cominciamo
dalla questione ‘dittatura’ che per l’Africa postcoloniale è
quant’altre mai bisognosa di contestualizzazione storica.
Le
caratteristiche dell’attuale sistema di governo del Rwanda non sono, in realtà,
molto diverse da quelle della stragrande maggioranza dei sistemi di governo
africani. E potrei anche azzardare che non sono molto diverse da quelle della
stragrande maggioranza dei sistemi di governo dei Paesi del Terzo Mondo.
Si
tratti di dittatura o di democrazia, le qualità dei sistemi di governo
dipendono più da condizioni sostanziali che da condizioni formali. Mi spiego:
se noi definiamo democratico o dittatoriale un sistema sulla base della
circostanza che in quel Paese esista o no una pluralità di partiti, invece che
uno solo, ovvero che esista o no una reale possibilità di alternanza di forze
politiche o di classi sociali al governo, secondo i modelli che ci sono
consueti, allora è chiaro che per la grande maggioranza dei Paesi del Terzo
Mondo - non solo quelli africani, ma anche quelli asiatici e, di quando in
quando, anche quelli latino-americani - dovremo sentenziare (noi europei
nutriamo una vera passione per questo esercizio) che si tratta di situazioni di
mancanza di democrazia ovvero di dittatura.
Ma non possiamo fermarci al livello di una osservazione formale. Ci sono,
infatti, delle condizioni che hanno a che fare, come dicevo, con la sostanza più
che con la forma della democrazia, o con la sua qualità. Certo, a seconda
dell’inclinazione teorica dell’osservatore quelle condizioni variano ma,
alla fin fine, una è la più rilevante: quella che discende dalla distanza fra
la concreta realtà politica ed economica dei Paesi del Terzo Mondo, in
particolare quelli d’origine coloniale, e l’astratto obiettivo teorico
dell’osservatore. Non solo dell’osservatore occidentale, si badi bene, ma
persino di quello africano il cui orizzonte, nella maggioranza dei casi,
coincide con l’orizzonte teorico e pratico proprio delle economie
capitalistiche occidentali nei cui ambienti s’è formato.
Ora noi occidentali abbiamo, com’è ovvio, un’idea di democrazia
conforme alla nostra storia. E il nostro concetto di democrazia proviene quasi
direttamente dall’evoluzione del sistema capitalistico, prima in ambiente
illuministico e poi in ambiente liberale. Infatti, con le integrazioni venute
dal marxismo, per noi sistema democratico equivale a sistema illuministico e
liberale. Sistema dotato di strumenti per quella che gli inglesi chiamano ‘governance’,
strutturato per consentire l’alternanza delle forze politiche che ambiscono a
sostituirsi l’un l’altra nel governo. Ma si da il caso che, salvo rarissime
eccezioni, in nessun Paese del Terzo Mondo esistano condizioni di base
paragonabili a quelle che ho appena descritto, cioè a quelle dell’Europa
illuministico-liberale. Già solo per questo, pertanto, mi pare piuttosto
arbitraria una sentenze di assoluzione o di condanna sul fondamento di una
comparazione incongrua o, detto altrimenti, solo sulla base del concetto formale
di democrazia. In realtà, per quanto quelle condizioni siano, è vero, ambite,
ricercate, riconosciute anche nel mondo non sviluppato, si tratta di condizioni
alle quali i Paesi del Terzo Mondo non riescono ad accedere e, al momento, tanto
meno possono riuscirci quanto più sono, di fatto, esclusi dal ristretto novero
dei soggetti dell’economia internazionale di cui invece rimangono
implacabilmente oggetti.
Ne dedurrei che, così come a tutt’oggi non è possibile,
sostanzialmente, non solo stabilire un parallelismo ma, quello che sarebbe
necessario, anche solo un’ipotesi di convergenza fra sistema economico
africano e sviluppo capitalistico di tipo europeo, risulta altrettanto
impossibile emettere valutazioni comparative su realtà incomparabili.
Bisogna aggiungere che in Africa ci troviamo nella paradossale situazione
di avere un deficit di democrazia, intesa proprio come noi la intendiamo, che è
lamentato, lo dicevo prima, anche dagli stessi governanti africani il cui punto
di vista - inseriti come essi sono nel circuito economico e culturale che fa
capo all’Occidente - fondamentalmente coincide con il nostro. Noi europei, cioè,
siamo riusciti a collocarci non solo al centro della storia dal nostro punto di
vista (siamo, come si dice, “eurocentrici”), ma ci ritroviamo accanto, in
questo eurocentrismo, gli stessi governanti africani e, direi di più, gli
stessi teorici politici dell’Africa. Per molti di costoro, infatti, il sistema
di governo - e quindi la democrazia e, reciprocamente, la mancanza di democrazia
- è direttamente connesso con la prossimità del loro sistema, delle loro
strutture, ai paradigmi che vengono dall’Europa. Se questo è vero, e,
insomma, ho l’impressione, almeno per la mia esperienza, che questo sia vero,
il problema se esista o non esista la democrazia, se esista o non esista la
dittatura in un Paese africano o in genere del Terzo Mondo è un problema su cui
bisogna intendersi preliminarmente in via teorica, altrimenti, lasciato alle sue
nude alternative, risulterebbe un problema mal posto, la cui funzione si
ridurrebbe a consentire a noi occidentali la pratica per la quale nutriamo
maggior trasporto: quella di distribuire pagelle. Se la questione, insomma, si
riduce all’indagine sul fatto che esista o non esista un sistema formale di
democrazia come quello nel quale noi viviamo, noi europei voglio dire, da
settanta, ottanta o cento anni, una volta risposto di no non avremo fatto un
solo passo avanti nella conoscenza delle realtà africane. Certo non avremo un
solo elemento per rispondere alla domanda di fondo: perché, nonostante le
drammatiche eccezioni costituite dai totalitarismi anti-democratici d’Europa -
che hanno occupato vent’anni, grosso modo una generazione, della storia
d’Europa - il sistema democratico, fondato in Europa e sviluppato per
l’Europa, in Europa ha funzionato, mentre non ha funzionato in Africa, non ha
funzionato in Asia?
Tutto questo premesso, alla sua domanda, con la brutalità con cui è
formulata (ma è bene che siano brutali le domande), io risponderei che sì, per
i nostri parametri il Rwanda, come tanti altri Paesi africani, è una dittatura;
tuttavia, con altrettanta franchezza, non mi fermerei all’indagine sulla
possibilità che l’attuale presidente della Repubblica, Kagame, sia o non sia,
in ipotesi, sostituibile attraverso sistemi pacifici, non cruenti, attraverso
elezioni, non mi pare questo il nodo. Il problema è più sostanziale: il
presidente Kagame, o qualunque altro al suo posto, risponde o non risponde alle
contraddittorie esigenze attuali e alle complesse condizioni culturali del suo
variegato popolo? La sua presidenza è espressione reale della volontà delle
varie comunità che costituiscono il suo popolo o non lo è? Se, per capire
meglio, ci consentissimo per una sola volta quella che agli storici è di norma
interdetto, cioè una ipotesi storica, un ‘se’, e congetturassimo che,
invece di Kagame (che per coincidenza è effettivamente imparentato con la
famiglia reale del suo paese), si trovasse alla testa del Rwanda uno qualunque
dei re tutsi della sua storia, lei mi farebbe ancora una domanda di questo
genere ? Se al posto di Kagame ci fosse a governare Kigeri V, l’ultimo re del
Rwanda (Jean-Baptiste Ndahindurwa), legittimato come tutti i suoi predecessori
da una totale convergenza di opinione delle varie componenti del popolo rwandese,
mi chiederebbe ancora se c’è o non c’è la dittatura in Rwanda ? Eppure
saremmo comunque di fronte ad un sistema monarchico di natura nettamente
assolutistica, un sistema che noi europei abbiamo da tempo ripudiato. In realtà
se esistesse ancora una monarchia come quella del passato rwandese, lei farebbe
fatica a trovare, fra gli abitanti del Rwanda, un hutu, un tutsi, un twa che
dichiarerebbe arbitrario il sistema e il potere politico che ne promana.
Nessuno, ripeto: tutsi, hutu o twa essendo convinti che il re esprime
effettivamente la volontà del suo popolo.
Avrà
capito quindi che ritengo che il fatto che ci sia un solo uomo (o, che è lo
stesso, un ristretto gruppo di uomini) al potere, e che da questo uomo solo
promani la volontà politica, le decisioni politiche, ecc., probabilmente è
meno importante di quanto non sia importante la rispondenza della politica di
quell’uomo solo, o di quel gruppo di uomini, alle esigenze della comunità che
capeggia. Badi bene che io, essendo uno storico, non parlo delle esigenze
espresse dalla pura e semplice attualità, non mi riferisco solo alla
corrispondenza all’oggi, ma anche della corrispondenza alla storia, perché un
regime o un sistema politico può rivelarsi non democratico non solo se non
interpreta le esigenze presenti della sua comunità ma anche se ne viola
il passato, se fa violenza alla storia. Così, entro certi limiti, mi sembra che
non siano democratici tutti quei sistemi di governo, ivi compresi quelli
apparentemente democratici (governi
che pur consentono l’alternativa, governi eletti, ecc.) che non siano in
sintonia con la storia del popolo dal quale sono stati espressi.
Prima
di concludere su questo aspetto, ancora una brevissima considerazione sul tema
della democrazia nella vicenda storica complessiva della regione dei Grandi
Laghi in età contemporanea. Ci sono stati, nella regione, momenti nei quali
sembrava che le speranze e le opportunità della democrazia così come la
intendiamo noi fossero maggiori. Sembrava che la democrazia potesse non solo
sbocciare e fiorire, ma anche ingrandirsi e consolidarsi. Alludo al periodo e
alle speranza che hanno riguardato tutto il mondo, con la caduta del muro di
Berlino e dell’Unione Sovietica e con l’abbattimento sostanziale del
movimento comunista internazionale, del cosiddetto comunismo reale. A partire
dal 1990 questo processo ha investito l’Africa come una specie di rivoluzione,
ma s’è trattato, ancora una volta, di un moto indotto dall’esterno: ancora
una volta l’Africa è stata oggetto, non soggetto, del suo stesso più intimo
destino.
Nell’Africa
francofona, per esempio, sono state poste da Mitterand una serie di condizioni
per proseguire nella politica di protezione che la Francia accorda ai suoi
clienti locali. Quelle condizioni avevano lo scopo, che l’opinione pubblica
europea e le stesse esigenze del sistema economico internazionale consideravano
ormai improcrastinabile, di introdurre il multipartitismo nel sistema
franco-africano, complesso sistema di relazioni politiche, economiche e militari
ineguali o asimmetriche. Lei crede seriamente che queste siano condizioni dovute
ad un improvviso soprassalto di democrazia africanistica da parte di Mitterand,
lo stesso Mitterand che aveva invece sostenuto i più feroci dittatori africani
fino a quel momento ? Certo non lo crede ! Si trattava semplicemente di
apprestare una serie di cornici formali, all’interno delle quali continuare
con aggiornata efficacia la stessa politica di prima, tant’è vero che, per
quanto riguarda la nostra regione, la regione dei Grandi Laghi, i Presidenti
francesi, Mitterand e dopo di lui Chirac, non hanno fatto altro che proseguire,
dopo il 1990, dopo l’introduzione del multipartitismo in Africa, esattamente
nelle stesse politiche di prima. Solo che prima del ’90 quelle politiche le
sostenevano attraverso collegamenti con sistemi monopartitici e, dopo il ’90,
con sistemi pluripartitici (o, si veda il caso dell’ex Zaire, fintamente
pluripartitici).
Nel
caso del Rwanda, governato prima del ’90 esclusivamente dal MRND di
Habyarimana, il paese fu in seguito governato da una rete politica in cui
Habyarimana aveva semplicemente la maggioranza e tutti gli altri seguivano; e
tanto poco cambiò la politica francese dopo l’inserimento del multipartitismo
in Africa, che Mitterand non fece nulla per impedire il genocidio dei rwandesi
dell’opposizione (prevalentemente tutsi ma anche hutu). Un genocidio che è
venuto fuori da un sistema formalmente democratico. Ecco perché sono così
attento all’uso del termine democrazia e dittatura e, soprattutto, al valore
che questo temine ha nelle differenti situazioni storiche. L’indagine storica
comporta una certa fatica, anzi, decisamente, molta fatica proprio perché non
si può andare per schemi, procedere servendosi di regolette o di formule valide
una volta per tutte attraverso le quali si stabilisce ciò che è bene e ciò
che è male: i modi per il perseguimento del bene o del male variano al variare
delle condizioni storiche.
Facciamo un passo indietro, professore. Il 6 aprile 1994 l’abbattimento dell’aereo sul quale viaggiava Habyarimana provoca l’inizio dei massacri. Secondo lei, quali sono le cause del genocidio che ha insanguinato il Rwanda? Si è trattato di un evento improvviso, dovuto all’emozione suscitata dalla morte del presidente o di un evento lungamente preparato? Di chi sono le colpe: del governo, della guardia presidenziale, delle milizie interahamwe, del Fpr?
Lei
fa una domanda ad uno storico, non ad un giornalista. Se fossi un giornalista,
mi affannerei, forse inutilmente, alla ricerca della cosiddetta causa
efficiente, cioè a capire se lo scatenamento della catastrofe è dovuto
all’attentato contro il presidente ed eventualmente se questo attentato è
stato gestito ed attuato da gruppi di opposizione, o invece dagli stessi hutu
‘radicali’ che volevano programmare lo sterminio dei tutsi oppure, ancora,
da uno dei gruppi hutu prossimi al Presidente. Ora, intanto, allo stato attuale
dei fatti, qualunque risposta rischia di essere azzardata. Una risposta, certo,
bisognerà pur darla, ma tenendosi alla larga dal semplicismo.
Ma,
soprattutto, sia per la conoscenza storica che per avviare un qualche processo
di soluzione alla questione della convivenza interetnica, è vitale riconoscere
che la responsabilità di questo sterminio risale molto indietro nel tempo. Non
si può immaginare di trovarne le cause né nel marzo del 1994, né nel 1993, né
nel 1988, né in nessun altro dei tanti piccoli e drammatici episodi della
storia della conflittualità etnica nel Rwanda della seconda metà del
Novecento: bisogna valutare quegli episodi nel loro insieme e nel loro divenire.
Non sarà certo necessario risalire ‘indietro nei secoli’, secondo la tesi
che certo giornalismo razzista e semplificatorio ha cercato di accreditare
inventando di sana pianta un inesistente ‘odio tribale secolare’, ma
sicuramente di alcuni decenni e tornare alla fase terminale del periodo
coloniale.
Il
primo di una lunga serie di episodi che possono, ex post, essere connotati come
genocidari risale al 1959. In
occasione della rivoluzione hutu per la presa del potere e per l’eliminazione
della monarchia, si verifica allora il primo tentativo di stermino di quel
gruppo etnico, i tutsi, cui i belgi avevano confidato la gestione esclusiva del
potere ‘subcoloniale’. Ora, una rivoluzione politica era ben comprensibile
nel critico momento in cui si andavano decidendo le sorti di un futuro Rwanda
autonomo o indipendente, ma una rivoluzione così etnicamente connotata aveva di
che sorprendere, e sorprese innanzitutto la maggioranza degli stessi banyarwanda.
Il motivo è presto detto: nel passato del Rwanda e del Burundi c’era stata,
questo è fuori discussione, una lunghissima, pluri-secolare consuetudine di
coesistenza interetnica. Tutto quello che noi sappiamo ci permette di dire che
tra queste etnie s’era sviluppata una vera e propria osmosi. Nel lungo lasso
di tempo in cui i pastori tutsi entrarono via via in Rwanda, s’era formato un
sistema nel quale, fosse o meno un sistema di sfruttamento come, negli anni 50,
affermano gli hutu, gli uni e gli altri, se vuole i potenziali sfruttatori e i
potenziali sfruttati, erano concordi nel non interrompere il flusso, diciamo così,
dell’interscambio agropastorale.
La
contrapposizione tra i gruppi non aveva mai raggiunto un livello che possa
essere anche lontanamente paragonato a quello cui poi si è assistito nella seconda metà del secolo scorso. Non si troverà nessun
esempio in contrario, neanche nei lavori degli storici hutu rwandesi, tra i
quali, del resto, l’unico, per così dire, di peso scientifico, è Ferdinand
Nahimana, che quindi voglio citare nonostante la sua deriva ultraradicale (è
sotto processo ad Arusha per aver diretto il genocidio). Nahimana ha tentato di
dimostrare che il sistema di relazioni interetniche era un sistema di
sfruttamento che gli hutu, nel passato, a più riprese avevano contestato ma le
sue parole sono rimaste astratte ipotesi, quando non petizioni di principio.
E’ bensì vero, infatti, che le piccole comunità statuali a vario grado di
indipendenza in cui era suddiviso il Rwanda precoloniale erano spesso dirette da
hutu ma l’eventuale conflitto fra costoro e i tutsi aveva, per l’appunto, il
carattere di uno scontro fra Stati (plurietnici al loro interno), non fra etnie.
Noi
storici siamo portati a ritenere che il sistema precoloniale fosse un sistema
economicamente e socialmente in equilibrio e, a riprova e coronamento di ciò,
che fosse in equilibrio anche politicamente. Nel Burundi, come nel Rwanda e nel
Toro, nell’Ankole, nel Buha e nelle altre regioni circostanti governavano su
comunità tutte multietniche delle monarchie prevalentemente pastorali.
Potevano anche essere delle monarchie hutu (ho già citato la storiografia
hutu che a giusto titolo rivendica l’esistenza di regni governati da
hutu), ma i sistemi di potere erano mutuati dalla cultura pastorale tutsi. Erano
culture, quelle pastorali, che, per così dire, producevano politica monarchica.
In
questo sistema di equilibri, in questo sistema equilibrato economicamente,
socialmente e culturalmente, c’era anche un equilibrio politico. L’avverbio ‘culturalmente’ è importante, se si tiene
presente che il sistema era omogeneo per una serie di importanti aspetti che non
possono essere sottovalutati: il fatto che parlassero la stessa lingua, che
praticassero la stessa religiosità, che avessero la stessa fede in un comune
destino, significa che c’era la consapevolezza d’essere una comunità, che
le caratteristiche di tale comunità erano condivise da tutti e che il carattere
multietnico di tale comunità era fuori discussione. Come si vede si trattava di
una comunità del tipo di quelle che in Europa venivano e vengono chiamate ‘Nazione’.
Questo senza che le caratteristiche culturali di ciascuna etnia andassero disperse, tanto è vero che la presenza di hutu e tutsi in quanto tali nel Paese ha sempre avuto un notevole peso nelle scelte politiche in senso lato.
A
questa situazione, la situazione pre-coloniale, con l’equilibrio interetnico
cui abbiamo accennato, subentra con l’arrivo degli europei un sistema la cui
natura calamitosa non era stata prevista neppure dagli europei. Cosa fanno i
nuovi arrivati in questa regione ? Si basano sul sistema esistente, in
particolare sul sistema di potere già esistente: il colonialismo inglese
e quello belga, infatti, si fondano sul governo indiretto (indirect
rule). Si tratta di una scelta apparentemente rispettosa dell’esistente ma
che in realtà lo stravolgono sia perché non ne vedono che gli aspetti di
superficie sia perché tendono a piegarlo alle loro esigenze amministrative. Così
i tedeschi prima e i belgi poi (come del resto gli inglesi in altri Stati della
regione) appoggiandosi sui governanti locali, o decidendo sbrigativamente, e una
volta per tutte, quali lo siano (nel caso nostro si appoggiano sui tutsi),
irrigidiscono un sistema che, invece, per funzionare adeguatamente, aveva
bisogno della tradizionale elasticità. Una maggioranza di governi tutsi era
effettivamente al potere al momento dell’arrivo degli europei (il che avviene
molto in ritardo rispetto a tutto il resto dell’Africa, negli anni 1892-1894).
Con
l’arrivo degli europei e con la loro decisione di fondare il nuovo potere,
quello coloniale, sulla rete politica esistente, inizia per il sistema locale un
processo d’irrigidimento che prima non esisteva. Prima l’equilibrio
comportava un consenso e prevedeva anche un ricambio della classe dirigente. In
Burundi, in particolare, dove non c’erano dinastie bloccate nella difesa
etnica del loro potere, si ipotizza, senza scandalo alcuno, che all’origine
del primo nucleo di Stato ci fosse una monarchia hutu ovvero – cosa che, però,
a me pare più difficile da provare - che
le dinastie reali non fossero né tutsi, né hutu. I quattro gruppi familiari,
anzi, cui appartengono i principi reali, i ganwa, costituirebbero,
secondo questi ultimi, una etnia a parte, diversa dalle altre che popolano il
Burundi.
In realtà, il fatto che i ganwa facciano appello a questa teoria significa, per un verso, che non hanno in nessun modo ereditato una cultura di contrapposizione etnica, ma rispecchia, per l’altro verso, il dubbio, politicamente molto delicato, cui mi riferivo prima: che cioè all’origine della monarchia burundese non ci siano dei tutsi. E’ più che una supposizione che il primo re del Burundi, Ntare Rushatsi, fosse hutu.
Se ritorniamo al primo colonialismo, io direi che con l’avvento del sistema coloniale le relazioni sociali, e in particolare le relazioni interetniche, subiscono un blocco, vengono fissate una volta per tutte. Si prenda l’esempio della scuola e quello delle amministrazioni locali. Il criterio adottato dai responsabili coloniali e missionari (erano questi ultimi che monopolizzavano l’istruzione) fino agli anni 50, è stato quello in base al quale ad andare a scuola devono essere solo i figli dei capi, in maggioranza tutsi in Burundi, esclusivamente tutsi in Rwanda. Il sistema scolastico, la base, si accompagna poi ad una costruzione giuridica e legislativa che favorisce o addirittura impone il permanere dello stesso gruppo etnico al potere anche all’interno delle singole regioni. I tutsi che, in un primo tempo, detenevano il 60% del potere amministrativo locale, alla vigilia dell’indipendenza arrivano a gestirne il 96-97%., Ho citato prima l’esempio delle scuole frequentate solo dai tutsi perché è fin troppo ovvio che saper leggere e scrivere è indispensabile per accedere ai posti di gestione. Ebbene sia in Burundi che in Rwanda i tutsi sono favoriti fino al 1959, quando scoppia in Rwanda la rivoluzione hutu. A rigore, tutto avrebbe potuto lasciar pensare che gli hutu si sarebbero scagliati contro i belgi, che avevano reso i tutsi detentori esclusivi del potere. In realtà l’obiettivo della rivolta è, a sorpresa, un obiettivo identificato non politicamente ma, per la prima volta nella storia del Rwanda, etnicamente e porta a una nuova, complessa e pericolosissima attitudine reciproca dei vari gruppi etnici, come ho cercato di spiegare nei miei libri “Burundi, Congo, Rwanda. Storia contemporanea di nazioni, etnie e stati” e “Colonalismo e neocolonialismo. La vicenda storica del Burundi e del Rwanda”.
Per concludere, dobbiamo situare questa realtà nel sistema internazionale dominato e qualificato dalla guerra fredda. Potrà sembrare paradossale, ma anche i Paesi privi di autonomia politica internazionale, come i paesi coloniali, ivi compresi quelli dell’Africa dei Grandi Laghi, hanno subito pesantemente questa influenza e ne hanno pagato il prezzo di un antinazionalismo di rinnovato vigore.
Molti
ricorderanno che il grande dibattito internazionale sull’anticolonialismo, sia
in Africa che fuori dall’Africa, è stato direttamente legato alla polemica
politica internazionale, per via del fatto che coloro che, nel mondo intero, si
battevano per la fine del colonialismo e coloro che facevano una politica
anticoloniale in Africa, s’ispiravano, più o meno direttamente, più o meno
apertamente, più o meno convintamente, alle teorie di liberazione che venivano
sostenute dal movimento socialista internazionale. Anche i non comunisti, come
Lumumba, ad esempio, non avevano certo il mondo comunista fra i propri orizzonti
teorici ma potevano essere indotti a far appello alla ben concreta Unione
Sovietica perché questa appariva loro come l’unica garanzia politica
internazionale. Ed era di fatto, in fin dei conti, l’unico riferimento che
poteva consentire a un popolo privo di qualunque risorsa e potere internazionale
di opporsi alla cosiddetta madrepatria che, come nel caso del pur piccolo e
debole Portogallo, era comunque incommensurabilmente più forte. Il sistematico
ricorso al movimento comunista come movimento anticolonialista, condusse a una
controcultura in cui anticolonialista finì col significare comunista, cosa che
non era vera, ma che faceva il gioco di coloro che volevano mantenere il
colonialismo e vi piegavano persino una potenza tradizionalmente anticomunista
come gli Stati Uniti.
Ritorniamo
allora al nostro sistema, il sistema belga. Nel 1959 i belgi non avevano ancora
nessuna idea di lasciare le colonie. Erano alla vigilia della sconfitta del loro
piano coloniale più tradizionale, ma non ne percepivano l’imminente,
clamoroso fallimento. Ancora nel ’59 pensavano di poter dominare non solo il
Rwanda e il Burundi, ma anche il Congo che, in realtà avrebbe ricevuto
l’indipendenza appena l’anno dopo. Pochi anni prima, nel 1955, era apparso
un saggio, molto importante e molto moderato, del resto, di un consulente del
Governo belga che proponeva l’autonomia, non l’indipendenza, da concedere al
Congo solo nel 1985, cioè trent’anni dopo.
Abbiamo
visto che il sistema della contrapposizione colonialismo-anticolonialismo aveva
finito per coincidere con la contrapposizione comunismo-anticomunismo,
Est-Ovest. Ecco perché a questo punto la presenza di forze anticoloniali tra i
tutsi finisce per segnare la loro sorte. Nella misura in cui gli aristocratici
tutsi sono anticolonialisti - vogliano essi perseguire l’indipendenza o, in
maniera meno nobile, il mantenimento del loro potere etnico - diventano perciò
stesso dei comunisti contro i quali nessuno strumento di lotta è escluso.
L’anti-colonialismo e il desiderio d’indipendenza dei tutsi manifestatosi
chiaramente, i belgi non si limitano ad abbandonarli ma ne vogliono la rovina
politica. La politica coloniale fa una virata di 180 gradi: da totalmente
filo-tutsi, diventa totalmente filo-hutu. Tuttavia questo non basta, occorre
sostituire anche il sistema di potere tutsi sia nel Rwanda, dove è assoluto,
che nel Burundi. Nel Rwanda avviene una rivoluzione: hutu contro i tutsi. In
Burundi questo non può avvenire in ragione della maggiore elasticità del
sistema tutsi e della sua tradizionale minore centralità, ma in Rwanda ha
luogo, ed è organizzata e sostenuta dai belgi. Sotto la bandiera della caccia
ai tutsi, ‘feudali comunisti’, questa rivoluzione determina lo scatenamento
di una vera e propria furia etnica: il bersaglio sono i tutsi in quanto tali. Ha
inizio, nel 1959, il primo tentativo, anche se non per tutti consapevole, di
sterminio a carattere etnico.
Vede,
è per questo passato che non va rimosso che io mi rifiuto di rispondere alla
pura e semplice domanda se la causa del genocidio del 1994 è costituita
dall’uccisione di Habyarimana da parte dei tutsi, e dunque dall’ira degli
hutu, o invece da un’organizzazione molto raffinata della protesta hutu
attraverso l’assassinio dell’hutu Habyarimana da parte di gruppi hutu.
Ipotesi, del resto, che è stata fatta apertamente e presa seriamente in
considerazione sia da Jean-Pierre Chrétien che, soprattutto, da Filip Reyntjens
il quale ha fatto esami molto accurati circa le vicende dello stesso attentato,
ma senza limitarsi solo all’esame tecnico.
Per
rintracciare le cause bisogna andare indietro nel tempo e, se si va indietro nel
tempo, ebbene apparirà chiaro che il genocidio è scritto negli ultimi 45 anni
della storia del paese ed è venuto fuori dall’irrigidimento, d’epoca
coloniale e motivato dal colonialismo, indotto nei rapporti interetnici.
Parliamo del Burundi. Cosa ne pensa della proposta di Nelson Mandela ? Avere un presidente tutsi per un anno e mezzo e poi un presidente hutu, sempre per un anno e mezzo, può portare la pace in Burundi ?
La
proposta di Mandela mi sembra più che ragionevole; si tratta di una proposta
molto seria e articolata ma, se devo essere franco, senza grandi possibilità di
riuscita, almeno nell’immediato. Lo dico sapendo di fare un’affermazione
grave, ma ci sono davvero poche prospettive di successo completo. La proposta di
Mandela può avere successo solo nei prossimi due o tre anni e, probabilmente,
solo in modo parziale.
Il
piano è stato accettato dalle parti obtorto
collo, probabilmente più per l’importanza del mediatore cui era difficile
opporre eccessive condizioni e per l’acuta attenzione della comunità africana
e internazionale che per autentica disponibilità al compromesso. Eppure, come
in tutte le soluzioni di compromesso, è nell’ordine naturale delle cose che
ciascuna delle due parti possa guadagnarci qualcosa ma anche che debba
rinunciare a qualcosa. Ho invece avuto l’impressione, in Burundi, che le
riserve mentali siano innumerevoli dall’una e dall’altra parte. Il Frodebu,
il partito hutu ufficiale, o almeno la maggioranza dei suoi notabili, ha pensato
ai vantaggi che questa soluzione poteva portare, soprattutto al vantaggio della
fine della guerra; ma i leaders di altri gruppi hutu non hanno alcuna intenzione
di rinunciare al potere di interdizione comunque derivante loro dalla guerra.
Sono gruppi che contano e continueranno a contare nel Paese solo fino a
quando la guerra durerà. Il problema è, da parte hutu, neutralizzare queste
forze, il cui peso politico equivale, sostanzialmente, al peso delle loro
pallottole.
Dall’altra
parte, quella tutsi, se la maggioranza, che ha il suo moderato (ma pericolante)
leader in Buyoya, ha aderito alla proposta Mandela, la minoranza vede come un
pericolo mortale qualunque accordo fatto con gli autori del genocidio prima che
essi siano giudicati da un tribunale, normale o straordinario, e siano
eventualmente condannati. Essi ritengono che l’accordo equivalga a mettere una
pietra sopra un passato che invece non è giusto, e soprattutto è pericoloso
per il futuro, dimenticare.
Aggiungo
un altro elemento, che è tipico dell’Africa in generale e del Burundi in
particolare: l’elemento regionalistico. Sia fra i tutsi che fra gli hutu si
possono notare differenze di posizioni politiche anche in base alle differenze
di origine regionale. In altri termini, il clima di convergenza di tutti i
gruppi politici tutsi e hutu alla proposta Mandela è stato avvelenato - e il
problema, allo stato attuale, reso probabilmente irrisolvibile - dal fatto che
gli hutu di una certa regione del paese che sono esclusi dal sistema di potere
in atto nel Frodebu assumono atteggiamenti intrattabili o, addirittura, tengono
armate le loro milizie per poter in qualche modo condizionare gli equilibri
politici all’interno del partito. Lo stesso si può dire per il gruppo tutsi:
al suo interno ci sono alcuni gruppi regionali esclusi tradizionalmente dal
potere, che adottano una tattica assolutamente rigida in modo da poter lucrare,
quanto meno, una qualche visibilità politica. Come vede, la situazione politica
del Paese è piuttosto complessa e va esaminata nei dettagli.
Mi pare di capire che lei ritiene la proposta
Mandela utile e valida, ma difficilmente realizzabile in toto.
Sì, in effetti
ritengo che la proposta Mandela si realizzerà solo in parte e questo significa
che il conflitto nel Paese non si risolverà in
toto, ma solo in parte.
Passiamo ora al Congo. Qual è il suo giudizio su
due personaggi importanti della storia congolese: Mobutu e Laurent Kabila ?
Il giudizio su
Mobutu è storicamente ormai abbastanza fondato. Abbiamo innumerevoli dati sulla
sua vicenda, sia quelli che si possono raccogliere da un’analisi della storia
interna del Congo indipendente, sia quelli provenienti dagli archivi delle
cancellerie occidentali, in particolare gli archivi statunitensi che - lo posso
testimoniare personalmente - sono molto più liberali, nei confronti degli
studiosi, di quelli belgi o francesi. Questo nonostante il limite (non ufficiale
ma fattuale) dei documenti militari e della ristrettissima minoranza di quelli
coperti dal segreto di Stato, limite che non restringe l’assoluta libertà di
accesso ai documenti del Dipartimento di Stato.
I documenti
statunitensi sono estremamente importanti per la valutazione di Mobutu, perché
egli era, all’inizio segretamente, un uomo degli Stati Uniti. Lo è stato a
lungo, tradendo la fiducia di Lumumba, da quando, nel ‘60, il leader
nazionalista gli aveva affidato il comando delle forze armate, fino agli anni
80. Lo è rimasto anche nelle occasioni in cui gli americani progettavano una
sua eventuale sostituzione con altro uomo di fiducia; anche quando faceva
qualche giro di valzer con la Francia e con il Belgio, senza, però, mai
riuscire a suscitare grande gelosia politico-internazionale degli Usa. Anche in
questi casi Mobutu rimase l’uomo più affidabile per gli Stati Uniti, non solo
perché era stato il riferimento locale, anzi verosimilmente un vero e proprio
agente della Cia in Congo (e ne era la memoria storica) ma soprattutto perché
era il politico africano che meglio rappresentava gli interessi occidentali in
Africa centrale nell’epoca della guerra fredda. Anche qui (e qui, ovviamente,
ancor più che in Rwanda) la guerra fredda ha avuto il suo peso (si pensi al
rischio di scontro fra le due superpotenze in occasione della secessione del
Katanga fra il ‘60 e il ‘63), fino
alla caduta del muro di Berlino. Con la fine del sistema bipolare, Mobutu perse
la sua funzione anticomunista e fu abbandonato al suo destino: dorato destino,
viste le straordinarie ricchezze accumulate. Tuttavia, sfortunatamente per lui,
il periodo coincideva con la grave malattia che lo portò alla morte.
Beninteso il
giudizio storico su questo cupo personaggio non può ancora essere emesso in
modo completo: non c’è nulla di definitivo nel giudizio storico. Possiamo però
prendere atto che i numerosi volumi che sono già stati scritti sul suo conto e
sul drammatico periodo della sua lunga presidenza costituiscono ormai una base
di studio parecchio solida. Egli rientra a pieno titolo nella storia del Congo/Zaire
indipendente, che ovviamente è ancora da completare, anche se le grandi linee
ed i grandi temi di questa storia sono già stati tracciati.
Quanto a Kabila,
egli ha passato quasi tutta la sua vita nell’ombra, tanto che nemmeno i
servizi segreti occidentali sapevano molto di lui né, allo stato, risulta
materiale particolarmente cospicuo (e accessibile) che lo riguardi negli archivi
del Dipartimento di Stato americano.
Kabila era ritenuto un uomo secondario. Da giovane, aveva comandato la
ribellione anti-mobutista nel Congo orientale ed in questa veste aveva ottenuto
sul terreno la collaborazione (e un lungo strascico di polemiche) di Ernesto Che
Guevara. Anche in quel periodo egli relegava la sua figura pubblica nell’ombra
e si limitava alla gestione militare delle operazioni. Non lasciò mai
sospettare di voler accedere al potere politico. Finita a metà degli anni 60 la
ribellione nel Congo orientale, Kabila si ritirò in clandestinità e organizzò
una guerriglia che ebbe un impatto militare trascurabile e, dal punto di vista
politico, fu più formale che sostanziale, infatti non lasciò che una sbiadita
traccia della sua presenza fino alla metà degli anni ’80, senza infastidire
granché Mobutu.
In occasione delle due guerre dello Shaba, nel ‘77 e ’78, durante le
quali non riuscì a stringere un accordo politico con i loro promotori
nonostante la comune origine katanghese, la sua presenza e quella dei suoi
uomini fu limitatissima. Negli anni ’80, decise di mettere da parte la
guerriglia e di dedicarsi alla politica. Me lo preannunciò e me ne parlò nei
colloqui che ebbi con lui, sia in Italia che in Tanzania e nel Congo orientale,
tra il 1980 ed il 1986; mi parlò anche del suo partito politico, il Parti de la
Revolution Populaire, su cui nutriva grandi ambizioni ma che non riuscì però
mai a rendere simile al Mouvement National Congolais di Lumumba nella capacità
di distendersi sull’intero territorio congolese.
Di Lumumba, del resto, non aveva certo la straordinaria personalità, il
carisma, come si usa dire: tanto Kabila era silenzioso, riservato, oscuro, tanto
Lumumba era estroverso, clamoroso, tribuno, nel senso migliore del termine.
Kabila rimane dunque nell’ombra fino a quando gli si presenta
un’occasione favorevole, e del tutto imprevista, per eliminare definitivamente
Mobutu. In Rwanda s’è concretato il genocidio dei tutsi ma il FPR riesce a
reagirvi vittoriosamente prendendo infine il potere. Ora i legami tra i tutsi
rwandesi e Kabila risalivano all’epoca immediatamente postcoloniale, quando
molti rwandesi avevano combattuto in Congo a fianco di Kabila (e, per qualche
mese, di Che Guevara) allo stesso tempo contro Mobutu e contro la reazione
occidentale alla loro pericolosa o equivoca collocazione internazionale. Dal
punto di vista socio-culturale i loro legami con il Congo non erano stati mai
interrotti perché, dopo il ’59, una considerevole percentuale di tutsi aveva
preferito stabilirsi definitivamente nella provincia confinante col Rwanda, il
Kivu dove, del resto, altri tutsi s’erano stanziati fin dal 700. Essi furono
ripresi sotto il profilo politico e militare e i rwandesi sostennero Kabila fino
al suo ingresso a Kinshasa nel maggio del 1997. Tuttavia la loro ‘fortuna’
congolese andrà decrescendo in misura inversamente proporzionale al peso del
loro potere: questo era anche espressione di un piano egemonico rwando-ugandese
e costituiva, agli occhi di Kabila, uno strapotere. Il leader congolese troverà
il modo di disfarsi di loro facendo infine, anche lui, appello all’identità
etnica. A Kinshasa ci sarà una vera e propria caccia ai tutsi e una quantità
– fossero operai o intellettuali - che abitavano in Congo da tantissimi anni,
saranno barbaramente uccisi: bastava essere “lunghi”.
Kabila è dunque
un personaggio ambiguo. Egli appartiene a quella categoria di persone, così
numerose in Africa, che hanno pur lottato contro il colonialismo ma, una volta
arrivate al governo, sono state ‘vampirizzate’ dal potere. Ed è proprio in
quanto uomo di potere che Kabila è stato ucciso nel gennaio 2001, a seguito di
una congiura interna e internazionale. Gli obiettivi di questa operazione sono
stati, però, solo parzialmente raggiunti, perché è stato suo figlio Joseph a
diventare presidente. Il giovane Kabila è bensì venuto a patti con gli
oppositori del padre, ma è pur sempre un Kabila. Ha ottenuto, come già in
precedenza il padre, un certo appoggio da una parte del ceto politico
statunitense, i clintoniani, perché, dopo la caduta della pregiudiziale che
escludeva uomini che avevano lottato contro gli americani, leaders come Kabila e
Museveni sono considerati i protagonisti di un possibile “rinascimento
africano”.
Parliamo ora dell’Uganda, da qualcuno definita
“una democrazia senza partiti”. Qual è il suo giudizio su Yoweri Museveni,
che è al potere dal 1986, e qual è la sua opinione su quest’espressione:
democrazia senza partiti.
Dal punto di vista
formale è ovvio che una democrazia senza partiti non è altro che un gioco di
parole, una contraddizione in termini. La democrazia, così come la intendiamo
noi, comporta l’esistenza di parti politiche e le parti politiche, nella
nostra storia, sono costituite dai partiti. In pratica, però, e ne abbiamo
parlato fin dall’inizio di questa intervista, è ovvio che una democrazia
potrebbe funzionare anche con altri moduli di rappresentazione delle parti
sociali. Sono storicamente possibili altre forme di organizzazione del consenso
dopo un dibattito tra parti sociali differenti, anche se queste parti sociali
non sono costituite nella forma del partito politico. Da questo punto di vista,
è possibile quindi che esista una democrazia senza partiti, ma non è possibile
che esista una democrazia senza parti. Democrazia significa dibattito tra
diversi modi di vedere le cose. Ci può essere democrazia anche sotto il mango,
“l’arbre à palabre”, dove si discute di sera, quando la comunità, o la
sua parte notabile, decide il destino del villaggio, dalle cose piccole, come il
furto di una capra, a quelle grandi, come la minaccia di guerra da parte di una
tribù vicina. La democrazia può essere anche questo, l’importante è che
queste voci, siano esse di individui o di gruppi o parti, abbiano la possibilità
di esprimersi.
Nella storia
dell’Uganda, questa possibilità ha avuto un esito molto vario, in maniera non
molto dissimile da quello che è successo nel resto dell’Africa subsahariana.
Mi spiego: il problema se bisognasse consentire l’aumento o imporre la
diminuzione dell’importanza e della funzione delle varie parti politiche era
legato, in Uganda come in tutta l’Africa subsahariana, al timore
dell’esplosione del regionalismo. Nel monopartitismo africano non c’è nulla
di leninista, ma piuttosto il riferimento a un mito dell’africanismo
postcoloniale: l’integrità dei confini ereditati dal colonialismo. Con la
creazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana e col suo rigoroso
appoggio al criterio del rispetto dei confini coloniali, quel mito non era altro
che un escamotage autoritario volto ad evitare l’esplosione etnica o tribale
dei vari Stati africani. Era uno strumento per impedire una specie di
‘balkanizzazione’ generale dell’Africa. In Africa la tentazione c’era ed
il centralismo aveva la funzione di contenerla. Ora, nel corso della storia
dell’Uganda, si è dibattuto a lungo sul mono e sul pluripartitismo, Si è
passati da regimi monopartitici a regimi in qualche modo pluripartitici, fino a
quando, sotto la controllo politico del gruppo che fa capo a Museveni, il Paese
reale si è trovato fuori, per così dire, dal dibattito politico: fino a
quando, cioè, c’è stato un vero e proprio boom economico e l’Uganda è
diventato il Paese africano con il più alto tasso di crescita economica, il 10%
annuo. E la circostanza, per quanto la cosa possa sembrare cinica, rendeva in un
certo senso pleonastico il dibattito teorico sulla democrazia. Questo crescita
economica, del resto, è indubbiamente anche merito di Museveni: quando Clinton
visita l’Uganda, non fa solo dei complimenti di rito al Paese, ma è in
riferimento a questa crescita economica straordinaria (che vede, però,
impropriamente come generalizzabile) che parla di “rinascimento africano”.
Fino al 1985
avevamo assistito ad una decrescita costante dell’economia. Il prodotto
interno lordo e i parametri economici di tutti i Paesi africani indipendenti
erano in netta diminuzione. Faccio un esempio paradigmatico: nel Congo del 1960
un sacco di manioca costava 22 volte di meno, a prezzi costanti, cioè
calcolando sia l’inflazione che l’aumento degli stipendi, di quanto costasse
nel 1980. Questo significa che coloro che si nutrivano di manioca nel 1980 erano
22 volte più poveri di quanto lo fossero nel 1960. L’Africa si era dunque
impoverita in modo costante, anche se non ai livelli drammatici del Congo. Il
sistema economico del continente – soprattutto nei comparti urbani e
industriali o paraindustriali - andava sempre più verso il decadimento, verso
un immiserimento (la miseria è cosa molto diversa dalla povertà)
generalizzato. A partire dalla metà degli anni ’80, però, si registra
un’inversione di tendenza. A cosa ciò sia dovuto è ancora argomento di
discussione tra gli esperti, ma sicuramente non dipende, che so,
dall’improvvisa scoperta di materie prime, perché di materie prime l’Africa
già abbondava e perché quest’inversione di tendenza riguarda soprattutto
Paesi che, come l’Uganda, sono sempre stati poveri di materie prime. A mio
parere, la ragione principale è un modello meno insano di gestione della cosa
pubblica. Alla cleptocrazia, cioè alla sistematica sottrazione di beni pubblici
da parte dei responsabili della cosa pubblica, si va sostituendo un sistema di
gestione nel quale il bene pubblico, se pure non perseguito in maniera
calvinista, è comunque, quanto meno, preso in considerazione. La grande
crescita economica dell’Uganda è quindi in buona parte da ascrivere al merito
dei suoi governanti.
I periodi di
fioritura, però, non durano in eterno e oggi la crescita ugandese è, di nuovo,
drammaticamente prossima allo zero.
Per concludere,
direi che gli interrogativi sulla situazione complessiva dell’Uganda non
possono ancora avere una risposta: bisogna attendere gli effetti
dell’evoluzione del ciclo economico e degli avvenimenti politici
internazionali cui il Paese s’è legato. Bisogna, cioè, considerare le
condizioni politiche internazionali legate alla guerra in Congo, alla quale il
governo ugandese sta destinando somme enormi di denaro. Credo che l’Uganda
farebbe bene a tirarsi indietro da questa guerra. La sua azione militare in
Africa centro-orientale comincia a diventare una greve presenza imperialistica
e, almeno, così è percepita. Mentre capisco gli eventuali motivi del governo
del Rwanda, che vuole proteggere i suoi confini occidentali dalla penetrazione
dei ribelli, lo stesso non riesco a fare per l’Uganda, che è ampiamente al
sicuro nei suoi confini ed è presente in Congo per ragioni che non hanno nulla
a che vedere con la sua sicurezza interna. È probabile che il governo di
Kampala voglia esercitare una sua leadership sull’Africa orientale
sull’esempio di ciò che il governo sudafricano cerca di fare nell’Africa
australe: si tratta di una specie di gestione dei sub-continenti, che è
probabilmente nei sogni, e mi pare si stia trasferendo nei piani di politica
estera, di Mbeki e di Museveni.
Parliamo di Patrice Lumumba; nell’ultimo libro di
Ludo de Witte si parla a lumgo delle responsabilità del Belgio nella vicenda
Lumumba, a partire dalla caduta del suo governo fino alla morte del grande
leader congolese. Qual è la sua opinione a riguardo ?
Il Parlamento
belga ha istituito una commissione d’inchiesta che, a conclusione dei suoi
lavori, ha riconosciuto la responsabilità diretta del Belgio
nell’abbattimento del governo Lumumba. Non ne è stata invece dimostrata la
responsabilità diretta nell’uccisione del primo ministro congolese, benché
ufficiali belgi abbiano partecipato all’esecuzione. È importante, tuttavia,
che la commissione d’inchiesta abbia riconosciuto la responsabilità politica
e giuridica nell’abbattimento di quello che è stato, dal 30 giugno 1960, data
dell’indipendenza, ad oggi, l’unico governo legittimo del Congo, governo
sorto da una consultazione legale e straordinariamente ‘partecipata’.
Quando si parla di
Lumumba, si parla di un’eccezione nel panorama politico del Congo
contemporaneo. Tuttavia la sua eccezionalità non si ferma alla capacitò di
creare consenso nei confronti del suo partito (l’unico che abbia avuto
successo su tutto il territorio congolese) e favore popolare nei
confronti della sua persona: in una valutazione storica del personaggio, bisogna
purtroppo riconoscere che questa stessa caratteristica, pur importante per il
movimento indipendentista, ha, allo stesso tempo e con lo stesso peso,
contribuito alla sua perdita.
Oltre che nel suo
eventuale oltranzismo anticoloniale, è in questa sua caratteristica che va
individuata la sua parte di responsabilità nella sua fine fisica. Se pur
esisteva, per esempio, una possibilità di sottrarsi ai suoi carnefici con la
fuga, egli la gettò via nel corso stesso della sua attuazione: perdendo tempo,
fermandosi una decina di volte a parlare con i contadini nei villaggi,
occupandosi della sicurezza di coloro che gli erano vicini. Era del tutto
prevedibile che nel corso di poche decine di ore i suoi nemici - tra i quali,
non lo si dimentichi, la stessa Ambasciata degli Stati Uniti – avrebbero avuto
ragione di lui.
Quello di Lumumba
era stato inserito nella lista dei possibili assassini politici per i quali
l’amministrazione americana aveva dato carta bianca ai servizi segreti. Come
nel caso di Fidel Castro, gli statunitensi non sarebbero poi riusciti ad
ucciderlo mentre era capo del governo; avrebbero però contribuito in maniera
determinante a farlo fare dai loro alleati. Lumumba sarà ucciso in Katanga,
vicino Lubumbashi, che allora si chiamava Elisabethville da un gruppo di
militari katanghesi al comando di militari belgi.
E’ paradossale
che le considerazioni più serie e documentate sulla sua morte non provengano
dal libro del ‘lumumbista’ de Witte, che si limita ad una ricostruzione
ideologica della vita e della morte di Lumumba (prendendo anche qualche
abbaglio, il più grosso dei quali è quello di considerarlo di sinistra). Il
paradosso sta nel fatto che sia stato un responsabile dei servizi di sicurezza
belgi, Jean-Claude Brassinne, a scrivere il libro più chiaro sulle circostanze
di quell’assassinio. Ed è proprio lui, in questo libro del 1992, a parlare
per la prima volta, in qualità di responsabile dei servizi locali di sicurezza,
di un coinvolgimento diretto del Belgio, anche se, per Brassinne, non si tratta
di una responsabilità giuridica. Egli riteneva che l’eliminazione di Lumumba
fosse stata, tutto sommato, un’opera meritoria e quindi non nascondeva la sua
partecipazione, aspettandosene, anzi, un riconoscimento pubblico e ufficiale.
Solo oggi, dopo il lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta, il
governo belga ha finalmente messo in chiaro il ruolo del Paese come potenza
coloniale.
Il personaggio
storico va tuttavia ancora studiato: non si può dire esista una biografia
esauriente di Lumumba, piuttosto molte biografie settoriali (per quanto, come
dicevo, in molti casi parecchio limitate dalla loro ideologizzazione in un senso
o nell’altro), alcune delle quali, comunque, molto documentate, soprattutto
quelle frutto delle ricerche dell’Institut Africain di Bruxelles, un organismo
indipendente anche se finanziato dal Ministero degli Esteri belga.
Alla fine dell’intervista al prof. Carbone, mi pare utile riportare un
passo dell’ultima lettera di Lumumba alla moglie, scritta nel gennaio 1961,
pochi giorni prima della sua morte.
“L’Africa scriverà la propria storia e sarà, a Nord e a Sud del
Sahara, una storia di gloria e di dignità. Non piangermi, compagna mia. Io so
che il mio Paese, che soffre tanto, saprà difendere la sua indipendenza e la
sua libertà. Viva il Congo ! Viva l’Africa !”.
Martedi’ 28 giugno è un giorno importante per l’Uganda: in Parlamento si discute un disegno di legge di modifica costituzionale. Il punto piu’ importante del testo presentato dal governo è l’emendamento dell’articolo 105 della Costituzione, che prevede due soli mandati presidenziali, della durata di 5 anni. L’opposizione, che comprende sei partiti politici (il cosiddetto G 6), ha organizzato una manifestazione di protesta e, intorno alle 10, si raduna in piazza della Costituzione; la polizia, pero’, dichiara illegale la manifestazione e ordina alla folla di allontanarsi. I manifestanti fingono di disperdersi e si riuniscono davanti alla stazione ferroviaria; intorno alle 11,45 il corteo, composto da 7 minibus ed alcune centinaia di militanti, si dirige verso il Parlamento, dove è pero’ schierata la polizia. Inizia una guerriglie urbana, con i poliziotti che fanno uso di idranti, di gas lacrimogeni e di proiettili di gomma ed i manifestanti che rispondono col lancio di pietre. Verso le 14, la polizia riesce a disperdere la folla ed arresta cinque persone, tra cui Joel Wakayima, presidente del National Freedom Party.
Alle 14,30 il Presidente del Parlamento Edward Ssekandi dichiara la seduta aperta. Dopo un breve dibattito, la mozione, che ha bisogno per essere approvata della maggioranza dei due terzi (196 deputati), viene messa ai voti: 232 si’, 50 no, un astenuto. Il disegno di legge puo’ quindi continuare il suo iter parlamentare, che prevede altre due votazioni, una in Commissione, articolo per articolo, e un’altra in plenaria, con voto unico. I parlamentari dell’opposizione affermano che i loro colleghi si sono fatti corrompere dal governo, accettando una mazzetta di cinque milioni di scellini (2.200 euro circa), che in Uganda sono una bella somma.
La Bbc intervista alcuni parlamentari dell’opposizione, tra i quali l’onorevole Samuel Odonga Otto che, nell’ottobre 2004, era stato selvaggiamento picchiato dai militari, insieme ad altri due deputati del FDC (Forum for Democratic Change). Otto dice che l’opposizione non si fara’ intimorire ed ha gia’ iniziato una campagna di disobbedienza civile. Betty Kamia, dirigente del FDC, dichiara ai cronisti del Daily Monitor, unico quotidiano indipendente dell’Uganda, che 200 parlamentari stanno vendendo la nazione per cinque milioni di scellini. Altri parlamentari, tra cui Latif Ssebagala e Ssebuliba Mutumba, hanno ricevuto la loro dose di gas lacrimogeni.
Il direttore del Consiglio unitario dei cristiani ugandesi, reverendo Grace Kaiso, dichiara che la decisione di rimuovere il limite di due mandati presidenziali è una scelta dura, con conseguenze a lungo termine. Non è la prima volta che l’autorevole Consiglio ecumenico esprime la sua contrarieta’ a quello che è popolarmente conosciuto come “terzo mandato”.
Nota dell’autore: questo mio articolo è stato pubblicato, in forma anonima per motivi di sicurezza, sul sito Internet www.nigrizia.it nel luglio 2005
[1] Pascal Krop, Le génocide franco-africain, Lattes 1994, pagg. 71-79.
[2] Rodolfo Casadei - Angelo Ferrari, Rwanda-Burundi, EMI 1994, pagg.103-104. La lettera cui il testo citato si riferisce è del 9 aprile 1994.
[3] La conferenza internazionale sul razzismo tenutasi a Durban (Sudafrica) nel 2001 ha dichiarato che la schiavitù è un crimine contro l’umanità.
[4] Augusto D’Angelo, Il sangue del Rwanda, EMI 2001, pag. 26.
[5]
Pascal Krop, op. cit. , pag. 11.
[6] Rodolfo Casadei - Angelo Ferrari, op. cit., pag. 50. * Si tratta di Jean Kambanda. Il MDR è il Movimento democratico repubblicano e non nazionale, come erroneamente scritto nel testo citato.
[7] Stefano Squarcina in Nigrizia n° 10, ottobre 1995, pag. 9.
[8] Raffaello Zordan in Nigrizia n° 1, gennaio 1996, pag. 54.
[9] Efrem Tresoldi in Nigrizia n° 3, marzo 1997, pag. 62.
[10] Stefano Squarcina in Nigrizia n° 3, marzo 1998, pag. 56.
[11] Raffaello Zordan in Nigrizia n° 10, ottobre 1998, pag. 56.
[12] Nigrizia n° 5, maggio 1999, pag. 3.
[13] Raffaello Zordan in Nigrizia n° 5, maggio 2000, pag. 55.
[14] Augusto D’Angelo, op. cit. , pag. 93.
[15] Ibidem, pag. 114.
[16] Casadei e Ferrari, op. cit., pag. 121.
[17] “Si può uccidere sparando o sterminare per fame. Quello che sta accadendo è uno stermino per fame” (traduzione dell’autore).